5 Poesie di Carmine Valentino Mosesso da LA TERZA GEOGRAFIA
I paesi si salveranno
e salveranno anche gli uomini e le donne
che ci sono dentro
e intorno, a Nord, a Sud, al Centro.
Come non lo saprà nessuno,
faranno come hanno sempre fatto:
una mela in due, un fil di ferro,
e la sorpresa del miracolo.
*
Il giorno dopo la mia morte
accadranno cose bellissime:
la luce serena del primo mattino,
i vecchi a fare compagnia alla terra e all’aria.
Sarà puntuale anche il cane del rione,
passerà una donna,
porterà il suo fiore.
*
Basta correre dietro a chi non crede più nella bellezza
a chi ha per asse soltanto il proprio ego,
basta considerare ingenuo chi pensa al globo
come un magazzino di consumi e cianfrusaglie.
Il pianeta compie il suo lavoro
come la piccola bottega di un fornaio,
macinando intorno al vecchio mulino dello spazio.
Dobbiamo farci largo, coltivare giardini remoti,
non è una sana logica questa del vivere ammassati:
pensiamoci comunità distesa e non comunità fosso.
Il prossimo futuro dovrà stare in un mondo più intimo
e in una tenerezza più ampia.
Bisogna entrare nel silenzio dei paesaggi
farci polvere, preghiera, risalire al tarlo,
il dialetto planetario è scritto nel silenzio,
la nostra unica cura sarà la vicinanza.
*
Viene giù tutto in questa nostra patria fragile:
la passione civile ridotta all’osso,
il disordine edilizio accasato con l’indisciplina delle selve,
le politiche energetiche e comunitarie gettate nella pancia delle ortiche.
Non è un’emergenza globale quella che ci vede smarriti
ma un virus identitario.
Abbiamo smesso di allattare al seno greco,
alla conca bizantina, friulana, salentina
per abbandonarci ai nervi di cemento che squarciano le colline,
ai paesaggi feriti che affollano le corsie ministeriali.
Non cerchiamo più nemmeno il tempo per guardarci quanto basta,
l’intelaiatura civile è un meccanismo ipotecato dalla Rete.
Viviamo un tempo estremo, di fragilità emotiva, sociale, intellettuale,
soffriamo di un risonante capogiro, un intenso disordine democratico.
Il Paese non sta crollando sotto il fardello del fisco o della bieca informazione,
per la pastoie della politica o dei soci del cemento,
il Paese sta crollando
perché abbiamo demolito i pilastri della bellezza e dello sguardo.
*
Fino a qualche anno fa
c’erano i vecchi ad accudire le campagne,
quelli di adesso stanno tutti nelle case di riposo
a familiarizzare con il cielo,
i figli li tengono in ostaggio delle attese
e vanno a fargli visita come a spalancare le finestre di una vecchia casa.
I vecchi delle campagne
non erano uomini ma santi che sapevano ospitare la terra nella lingua,
nel vivere solenne.
Io impazzivo per le loro mani
e per quelle parole nate altrove da chissà quale lontano.
Tornavo da scuola aspettando di incontrarli
per ricominciare il viaggio dentro quelle rare gocce di sudore
che con il sacro peso del lavoro
andavano a formare un povero impasto con la terra.
Il pane dei vecchi era un pezzo di carne,
una bottiglia di vino, un melo selvatico,
il mare senza fine visto dalle Americhe.
Il pane dei vecchi era una cosa seria,
il primo comandamento della religione della miseria.