6 Poesie di LAURA LIBERALE (da Unità Stratigrafiche)

6 poesie di LAURA LIBERALE (da Unità Stratigrafiche)

 

un Mezzo mette della musica
poi resta dritto e immobile
di fronte al pubblico seduto

osserva l’affollarsi degli altri
gli smaniosi di parlare

*

se dopo gli telefonerai
pregandolo di dirti se c’è stato inganno
il Mezzo potrà risponderti:
ritorna e vedi tu stesso

*
un Mezzo parla di vibrazioni e pineale
al che tu scivoli via:
Cartesio, sì, ma soprattutto
la ghianda che tuo padre
al mare faceva calciare
a tua figlia per gioco

che tutto di questo sia salvo

non un attimo di meno

*

quando il gatto di Jacques Derrida fu sul punto di morire
guardò quell’uomo che gli era capitato in sorte
e percepì in lui un disagio ben diverso
da quello che fiutava se Jacques si ritrovava
nudo al suo cospetto

adesso sotto l’ondivago ciuffo bianco
Jacques non s’interrogava più
sulla natura dello sguardo del suo gatto
ma si spandeva forte in paura e disorientamento

era dolore nel dolore di un altro
che finalmente sentiva di non essere più l’Altro

 

*Jacques Derrida, L’animal que donc je suis

*

lo schiavo indiano crollò sulle ginocchia
quando vide gli elefanti nell’arena
muoversi in cerchio, alzare i loro lamenti
senza reagire all’attacco degli uomini

seppe così che Pompei era perduta
quei barriti convocavano le nuvole
più fosche del vulcano, non importava
in quanto tempo, Pompei era perduta

ignoravano, gli stolti cittadini
che una volta gli elefanti erano alati
strettissimi congiunti delle montagne

un cerchio sacro di diciotto animali
mandati a morte. Pompei era perduta

 

*Si narra che a Pompei, durante uno degli spettacoli nell’anfiteatro, gli elefanti lì condotti per essere uccisi non attaccarono gli uomini ma sollevarono al cielo le proboscidi e, tra i lamenti, si misero a girare in tondo, impressionando fortemente il pubblico. Secondo la tradizione indù, gli elefanti un tempo erano dotati di ali.

*

“In memoria della
devozione di
Tip
cagna da pastore
che stette accanto
al corpo del suo padrone morto,
il sig. Joseph Tagg,
sulla brughiera di Howden
per quindici settimane
dal 12 dicembre 1953
al 27 marzo 1954”

 

E comunque dove si poteva andare?
Non a mettere in allarme, ché di rimediabile non c’era niente.
Non a casa, e il perché è fin troppo ovvio.
Si poteva girare in tondo, alontanarsi per un breve tratto, come presi da una smania
e poi tornare subito indietro, a infilarsi nelle pieghe familiari:
l’incavo dell’ascella, tra guancia e orecchio, sotto il dorso della mano
anche quando il vecchio odore scompariva nel nuovo.
Si poteva farsi passare l’inverno addosso, vegliare sull’osso
virtuosamente placare la fame altrove
ripararsi dove il centro dello sguardo mai lo perdesse

ma sempre osciallando quanto al desiderio:
trovare qualcuno attorno, tenersene alla larga.

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