7 Poesie di GIOVANNI RABONI

Ogni sera che viene sulla terra
milioni e milioni di reduci
del ventesimo secolo
ascoltano senza tremare
le notizie del giorno
da Gerusalemme e dai territori.
Li condannermo per questo?
dubiteremo del loro buon cuore?
È vero, non s’erano ancora visti
i figli delle vittime
calarsi con tanto entusiamo
nel ruolo dei persecutori.
Ma non si può pretendere
che uno abbia voglia d’accollarsi
in aggiunta agli orrori del suo secolo
quelli del successivo.

*

Stanco della vita, io? Non scherziamo.
Ma se me la mangio con gli occhi, ancora,
tutte le sue insegne, se non c’è amo
al quale abbocchi! Semmai è ora

d’accennare, questo sì, a qualche addio,
cominciare a spegnere le candele
e chiudere gli spartiti, un leggio
per volta fino all’ultimo, al più fedele

degli strumenti… Quale? La memoria
sussurra i due violini, il cuore un flauto
o il tuo silenzio – ma io so che una storia
si fa da sola, che è empio o almeno incauto

scriversi il finale. Basti l’atroce
strozzarsi in gola, vero, della voce.

*

Mi sono distratto – oh, per poco, appena
quaranta, cinquant’anni – e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbigliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo. Niente è nuovo,

ora che le vivo, più delle cose
che ho vissuto aspettandole, aspettando
la vita, più delle, ma sì! famose
rose che ho colto come in trance, macchiandomi,

spesso e volentieri, di sangue… Eppure
c’ero anch’io quella volta, era il mio cuore,
erano i miei nervi, le mie giunture
a tremare di gioia e di terrore

per la tua venuta, sono sicuro
d’esserci stato – o era già il futuro?

*

Dopo la vita cosa? Ma altra vita,
si capisce, insperata, fioca, uguale,
tremito che non s’arresta, ferita
che non si chiude eppure non fa male

– non più, non tanto. Lentamente come
risucchiati all’indietro da un’immensa
moviola ogni cosa riavrà il suo nome,
ogni cibo apparirà alla mensa

dov’era, sbiadito, senza profumo…
Bella scoperta. È un pezzo che la mente
sa che dove c’è arrosto non c’è fumo
e viceversa, che fra tutto e niente

c’è un pietoso armistizio. Solo il cuore
resiste, s’ostina, povero untore.

*

Mai davvero felice e mai del tutto
infelice – oh, l’ho capito; e mi regolo.
Ma pensare la gioia, almeno quello:
pensarla! E qualche volta, senza farsi
troppe idee, senza montarsi la testa,
annusarla, sfiorarla con le dita
come se fosse (non lo è?) l’avanzo
della vita d’un santo, una reliquia…

*

O forse la felicità
è solo degli altri, d’un altro tempo,
d’un altra vita e a noi non è possibile
che recitarla come viene viene,
a soggetto, ostinandoci a inseguire
la parte di noi stessi
in un vecchio, bizzarro canovaccio
senza capo né coda…

*

Chi può più riconoscerli,
chi li distingue ormai dall’orda
che ogni giorno attraversa la città
blaterando in microfoni invisibili
di tenebrose transazioni
e feroci quisquilie familiari?
… Un modo, forse, ci sarebbe:
seguirli di nascosto fino a casa,
scoprire se è d’un angelo crudele
o d’un diavolo idiota
l’ombra che li perseguita.

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