Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
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Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse balzata fuori
una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
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Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata
da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi
d’un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio
dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
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Quale uomo ragionevole vuol essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano
in molteplici lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Poiché ciò che è morboso viene oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
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C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
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Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
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L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile restare la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave,
e ospiti invisibili entrano ed escono.
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Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia.
Perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo
con la speranza
che spiriti buoni, non maligni,
facciano di noi il loro
strumento.
-1968-