BAMBINI NEL TEMPO – Ian McEwan

Di seguito alcuni estratti dell’ottimo ‘bambini nel tempo’ di Ian McEwan,

di cui consiglio la lettura.

*Nel particolare: trovo ottima la descrizione dell’incidente che coinvolge il protagonista del racconto

orso gigante artista russa

L’arte di un cattivo governo consiste nel rendere netta la linea che separa la condotta pubblica dal sentimento privato, dalla percezione istintiva di ciò che è giusto.
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Si trattava però di sei anni cruciali, che avevano conferito a Darke, fin dall’adolescenza, un rispetto eccezionale per la maturità, facendogli sperare di dimostrare il doppio dei suoi anni, e a Stephen, la convinzione che maturità significasse slealtà, impotenza e stanchezza e che la gioventù rappresentasse quindi una convinzione beata a cui aggrapparsi finché fosse socialmente e biologicamente possibile.
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Si fermò accanto al letto per accarezzargli i capelli. Lui trattenne il respiro, l’atmosfera stessa stava trattenendo il respiro. Avevano di fronte due possibilità, in equilibrio perfetto su un fulcro sensibilissimo.
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La mente era libera di parlare del tempo
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S. alla guida di un’auto a noleggio, si dirigeva a est verso il S. centrale, percorrendo una tranquillissima strada secondaria.
Il tettuccio della vettura era spalancato. Aveva cercato un programma di musica decente alla radio, per poi accontentarsi delle folate di aria tiepida e della novità di guidare un’automobile dopo più di un anno.
Nella sua tasca posteriore, la lettera che aveva scritto a Julie.  Avendo avuto l’impressione che volesse essere lasciata in pace, era indeciso se spedirla o meno. Il sole, alto dietro di lui, offriva una visibilità di luminosa chiarezza. La strada, fiancheggiata da fossati in cemento per l’irrigazione, si stendeva in ampie curve, attraversando per miglia una pineta che si stendeva..
la notte prima aveva riposato bene, ricordò in seguito. Era rilassato, ma anche abbastanza sveglio. Si manteneva a una velocità costante oscillante tra le settanta e le ottanta miglia orarie, e rallentò appena solo quando si ritrovò davanti un grosso autocarro rosa.
In ciò che capitò dopo, la rapidità degli eventi fu equilibrata dal rallentamento dello scorrere del tempo. Si preparava a superare quando accadde qualcosa – tra le ruote dell’autocarro, come un vuoto improvviso, una nuvola di polvere; poi una cosa lunga e nera gli venne incontro da una distanza di una trentina di metri. Colpì il parabrezza, vi rimase per un istante attaccata e fu spazzata via prima che avesse tempo di capire di cosa si trattasse. Poi – o fu tutto simultaneo? – la parte posteriore dell’autocarro compì una complicata serie di movimenti, sobbalzi e ondeggiamenti, e si contorse in una pioggia di scintille luminose nonostante la luce solare. Qualcosa di curvo e metallico gli sfrecciò accanto di lato. A questo punto S. aveva trovato modo di spostare il piede sul freno e di notare un lucchetto sfilarsi da una flangia allentata e la scritta Lavami scarabocchiata nel sudiciume. Ci fu un gemito da sfregamento metallico e altre scintille abbastanza fitte da formare una fiammata bianca che parve espandersi in aria dal retro dell’autocarro. S. stava già premendo il pedale del freno quando si vide venire incontro i pneumatici, la massa sporca d’olio del differenziale, l’albero a camme e infine, ad altezza degli occhi, la scatola del cambio.
Rovesciandosi, l’autocarro sobbalzò sul muso una, o forse due volte, poi vacillò stancamente fino a completare la capriola e offrire a S. la visione della griglia del radiatore capovolta e del parabrezza luccicante a testa sotto, oltre allo schianto del tetto contro il selciato che precedette un salto in alto di qualche metro, una ricaduta e un ondeggiamento in avanti, in un letto di fiammate. Poi si piazzò in tutta la sua lunghezza di traverso bloccando la strada, precipitò sul fianco e di colpo fu fermo, mentre S. vi si dirigeva contro da meno di trenta metri e a una velocità che, a mente abbastanza libera…
Adesso, in quel preciso rallentamento del tempo, ci fu il senso di una fresca rinascita. Era entrato in un remoto futuro, nel quale mutavano i termini e le condizioni. Queste erano dunque le nuove regole e S. provò qualcosa di simile al timore reverenziale, come se stesse camminando da solo nella grande città di un pianeta scoperto recentemente. C’era persino spazio per un po’ di rimpianto, sincera nostalgia per gli spettacolari giorni andati quando un’autocarro poteva ancora catapultarsi in modo tanto suggestivo davanti a un testimone impassibile. Adesso lo attendevano tempi più duri, di fatiche e concentrazione. Stava dirigendo la vettura verso un varco aperto di circa due metri tra il segnale stradale e il parafango anteriore dell’auto immobile. Aveva tolto i piedi dai freni, ragionando – quasi che avesse appena compiuto uno studio monografico sul caso – che avrebbero deviato l’auto di lato, vanificando il suo tentativo di inserirsi nel varco. Al contrario, scalava le marce e manovrava il volante tenendolo saldamente con le due mani, pur senza stringere troppo, e si preparava a proteggersi il capo con le braccia qualora avesse fallito nel suo intento. Mentre inseriva la seconda e la piccola vettura esprimeva rombando il proprio lamento, gli apparve evidente che non doveva sforzarsi di concentrarsi troppo, che doveva invece affidarsi ad una sorta di dissociazione rilassata del pensiero e immaginare se stesso già dentro il varco. Al suono di questa parola, che dovette pronunciare a voce alta, seguì un acuto fragore di metallo e vetri; poi S. si ritrovò dall’altra parte con l’auto ferma, mentre la maniglia dello sportello e lo specchietto esterno sfrecciavano sulla strada a una ventina di metri dietro di lui.
Prima ancora del sollievo, prima dello shock, venne l’acuta speranza che il guidatore dell’autocarro avesse assistito a questa impresa da asso del volante. S. sedeva immobile, con le mani ancora aggrappate allo sterzo, e si osservava con gli occhi dell’uomo nel veicolo alle sue spalle. Se non lui, almeno un passante, magari un contadino, qualcuno che capisse qualcosa di guida e potesse valutare fino in fondo il suo talento. Desiderava un applauso, avrebbe voluto un passeggero seduto davanti con lui che si voltasse guardandolo con gli occhi lucidi di ammirazione. Anzi, avrebbe voluto J. Si mise a ridere e a urlare, Che te ne pare?Eh?Che ne dici? E poi: Ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta!
L’intera faccenda non era durata più di cinque secondi. A julie sarevve piaciuto quel che era accaduto al tempo, come la sua durata si era plasmata intorno all’intensità dell’evento. Adesso ne avrebbero parlato, emozionati dall’idea di essere vivi, curiosi di scoprire che cosa volesse dire, quale significato avesse per il loro futuro. Rise ancora, più forte, e gridò. Si sarebbero baciati, prendendo una delle bottiglie di Champagne dal sedile posteriore, incominciando a spogliarsi reciprocamente per celebrare la salvezza mentre la polvere si posava tutto intorno. Che momento! Si portò le mani sul viso e diede in gridolini confusi. Si soffiò vigorosamente il naso nello straccio giallo fornito dall’autonoleggio e uscì dalla vettura.
L’aria era densa di vapori del diesel. I vetri rotti stridevano in modo sgradevole sotto le suole. Gli venne in mente che il guidatore potesse essere morto. Si avvicinò alla cabina con cautela, cercando di individuarne lo sportello o un qualsiasi altro accesso. M la struttura si era come ripiegata su se stessa; sembrava un pugno chiuso o una bocca senza denti, tenuta serrata. Puntò un piede sul rottame e si issò fino avere la faccia a livello del parabrezza. Quest’ultimo era oramai una superficie opaca e lattigniosa. Arrampicandosi ancora S. trovò un finestrino ma riuscì solo a vedere l’imbottitura del soffitto della cabina schiacciata contro il vetro. (…)

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