CHINATOWN Roman Polanski #Film

Polanski il diavolo. Polanski il nanetto malefico. Polanski il genio del cinema. Scegliete una definizione a caso fra queste tre e non sarete comunque in errore. Già, perché Polanski è tante (forse troppe) cose, e tutte contemporaneamente: fine storico della settima arte, abilissimo giocoliere di preziosismi figurativi, padrone incontrastato di un universo umano dominato da ossessioni, paranoie, fobie.chinatown_locandina
Fobie, appunto. Ecco un primo tratto del regista: l’attrazione maniacale per l’ignoto, il male, la morte. Quello di Polanski è il supremo nichilismo di uomo che ha rinnegato Dio e abbracciato il caos come unico principio fondatore del “visibile”. La galleria dei suoi personaggi devastati, poi, farebbe la gioia di tutti i Freud di questo mondo: la psicolabile Christine, terrorizzata dagli uomini e dal sesso (“Repulsion”); il marito vigliacco ed impotente di “Cul de Sac”, l’opera più ambigua e “beckettiana”; la dolce e combattiva Rosemary, ossessionata dall’idea di portare in grembo il figlio di Satana (“Rosemary’s Baby”, l’apice insuperato della sua teologia malefica); il perseguitato esule ebreo-polacco Trelkowsky – interpretato da Polanski stesso – intrappolato nell’appartamento de “L’Inquilino del terzo piano”.
Opere disturbate e disturbanti, visivamente sontuose nonostante gli spogli ambienti in cui prendono forma le vicende (vere o immaginarie?). A passarle in rassegna, appaiono come un ciclo di incubi ad occhi aperti, in cui il confine fra “tangibile” e “illusorio” è sottilissimo, forse inesistente.
Polanski è però volto duplice, ambivalente: accanto al “poeta del male” che tutti conoscono, vegeta un sublime artigiano, umile ma geniale amanuense che gioca con i canoni del cinema hollywoodiano da un punto di vista intellettuale ed “elevato”, cosicché se, da un lato, tali stereotipi sono riaffermati in tutta la loro potenza – avendo essi la capacità di attrarre l’inconscio collettivo – dall’altro sono intimamente derisi, rivoltati dall’interno, adattati alla sostanza pulsante del suo cinema. Potrebbe quasi affermarsi che l’eclettismo del maestro polacco, il suo aderire ai “generi” (percorso portato avanti, secondo dettami antitetici, anche dal post-moderno Robert Altman) sia motivato giusto dallo sfizio di ridisegnarne i tratti somatici, di modo che in essi possano trovare giusta collocazione le sue visioni orrorifiche.
Manco a farlo apposta, è proprio in questa veste di “guastatore” che Polanski presenta il capolavoro “Chinatown” (1974): film che può legittimamente ambire (se non fosse per quei megalomani di Welles e Wilder, mannaggia) al titolo di “noir” per eccellenza, suprema celebrazione/rivisitazione della forma classica.
E’ addirittura una piaga biblica (la mancanza d’acqua che costringe Los Angeles alla siccità) il principio generatore del plot, complesso meccanismo ad orologeria profondamente “chandleriano” ove confluiscono omicidi, corruzione, speculazioni edilizie, incesto e chi più ne ha… Il tutto condotto dalla mano sicura di Polanski che, per l’occasione, dirige un trio d’attori davvero coi fiocchi: un Jack Nicholson in forma smagliante (l’investigatore privato Jack Gittes), la divina e decadente Faye Dunaway (qui nei panni della “vedova allegra” Evelyn Mulwray), nonché la personificazione di Hollywood John Huston – splendida salma riesumata per l’occasione – a impersonare il potente e incestuoso padre-padrone Noah Cross.
“Chinatown” come emblema della ricerca della verità, quindi, della lotta contro la sopraffazione. “Chinatown” come dimensione pre-filmica in cui Gittes, da semplice poliziotto obbligato a fare “il meno possibile”, assisteva al disgregarsi del concetto di legalità e conviveva a tu per tu con ogni genere di sopruso. “Chinatown” come fardello che il novello detective, ora specializzato in scandalucci a sfondo sessuale e corna assortite, sperava d’essersi lasciato definitivamente alle spalle. Vano è però il tentativo di sottrarsi alla realtà (quella vera, acre, che si annida come lerciume sui colletti bianchi dei “potenti”), così come è vano il suo coraggioso tentativo di arginare l’emorragia del potere. “Lascia stare, Jack, è Chinatown” si sente dire da un ex-collega poliziotto, un istante dopo la tragedia.
La grandiosità di quel finale così crudele e sublime (voluto dallo stesso Polanski che, a tale scopo, ha modificato quello originario previsto dalla sceneggiatura – premiata con l’Oscar – di Robert Towne) rischia quasi di far passare in secondo piano le mille sottigliezze di questa straordinaria pellicola, quali: la trama complessa e di raro spessore; la certosina ricostruzione dell’epoca d’oro dei noir, ma senza alcun tono di autocompiacimento (il regista, anzi, evita per quanto possibile i clichè visivi più scontati, mantenendosi fedele ai suoi piani sequenza frastagliati ed interrogativi); l’abbondanza di simbolismi acquatici (la gita in barca, le fotografie mostrate a Gittes ancora galleggianti nella bacinella(?), il laghetto artificiale che adorna la sontuosa villa di Evelyn) e, last but not least, una macchina da presa leggera come una piuma, attenta come non mai a levigare l’immagine e lasciar emergere raffinati cromatismi.
In un perverso gioco di scatole “chinatownensi”, Polanski ci costringe a fissare la nostra attenzione sugli occhi dei personaggi (e su quello della cinepresa stessa, “vertovianamente” testimone ed artefice della sciagura): proprio la piccola imperfezione dell’iride che Gittes riscontra ad Evelyn durante l’immancabile notte di passione – insolitamente fredda e quasi necrofila – è indizio certo della fine. E parliamo della(e) fine(i) del tempo, della storia, di tutti i tempi possibili e di tutte le storie possibili.
La sconfitta, aleggiante come un ectoplasma invisibile sui protagonisti, trova negli ultimi dieci minuti di filmato una valvola di sfogo, un canale di sbocco. In realtà, nella concezione “polanskiana” del tempo come di un circolo perfetto, e quindi del film come di un frammento di tempo sigillato nel suo infinito ripetersi, Gittes ha perso la sua battaglia non appena l’obiettivo lo ha catturato, sottraendolo all’anonimato. Egli non ha mai avuto alcuna chance di cambiare le cose, e per un motivo molto semplice: nel cinema di Polanski, ogni personaggio perde la propria partita a scacchi con la Vita nel momento stesso in cui viene alla luce (ossia quando la celluloide inghiotte il suo corpo). La stessa Evelyn non è che uno dei tanti (s)oggetti cinematografici (come Gittes, come “Chinatown” stesso) su cui Polanski scaglia, non senza un fondo di amarezza, il suo pessimismo esistenziale. Essi sono gli strumenti usati dal regista per dare alla sofferenza una dimensione (dis)umana. Il loro dolore è lo stesso provato da tutti noi per una sconfitta maturata dal nostro semplice – nonostante tutto – esistere.
Film immenso, a conti fatti, che dimostra una volta in più la malleabilità dell’ometto polacco, oggi splendido settantenne (che abbia davvero sigillato un patto con Belzebù? Nemmeno il collagene può tanto…) ancora intento a distillare emozioni dal cinema. Magari accusa qualche momento di stanchezza (l’ultimo “Oliver Twist” se lo poteva risparmiare, diciamo), ma ha scoperto come eccellere – e commuovere – nel formato per lui inedito del dramma bellico (il celebrato “Il pianista”, per quanto sovverta diversi punti saldi della sua poetica, vale tutto l’oro di Cartagine, per quel che mi riguarda). Un talento ancora intatto, si direbbe. Ma anche se così non fosse, ciò non toglierebbe un’oncia al valore dei film citati in apertura e, in particolare, alla magnificenza di “Chinatown”, stupendo affresco “settantino” (l’America rissosa di “There’s A Riot Goin’ On” che scalpita sotto la solare cornice californiana del dopo-“grande crollo”?) di dilemmi eterni e irrisolvibili.



*Fonte: Ondacinema.it