COME UNA CREPA ANCORA INVISIBILE NELLA PARETE PIÙ SOTTILE DI UNA BROCCA
#JoséSaramago (da LA CAVERNA)
Cipriano Algor cercò una via tranquilla dove attendere l’ora di andare a prendere il genero davanti alla porta del servizio di sicurezza. Posteggiò il furgone vicino a un angolo da cui si scorgeva, a distanza di tre isolati, una striscia di una delle enormi facciate del Centro, proprio quella corrispondente alla sua parte abitata. A eccezione delle porte che danno all’esterno, su nessuno degli altri prospetti ci sono aperture, sono teli impenetrabili di muro dove i grandi pannelli sospesi che promettono sicurezza non possono essere responsabilizzati di tappare la luce e rubare l’aria a chi ci vive dentro. Al contrario di quelle facciate lisce, il prospetto rivolto da questo lato è crivellato di finestre, centinaia e centinaia di finestre, migliaia di finestre, sempre chiuse per via del condizionamento dell’atmosfera interna. È noto che quando ignoriamo l’altezza esatta di un edificio, ma vogliamo dare un’idea approssimativa delle sue dimensioni, diciamo che ha un determinato numero di piani, che possono essere due, o cinque, o quindici, o venti, o trenta, e via così, di più o di meno di questi numeri, da uno all’infinito. L’edificio del Centro non è né tanto piccolo né tanto grande, si accontenta di esibire quarantotto piani al di sopra del livello stradale e nasconderne dieci al di sotto di questo. E fin da ora, dato che Cipriano Algor ha posteggiato il furgone in questo punto, siccome abbiamo cominciato a ponderare alcuni dei numeri che specificano il volume del Centro, diciamo che la larghezza delle facciate minori è di circa centocinquanta metri, e quella delle maggiori poco più di trecentocinquanta, non tenendo per ora conto, è chiaro, della costruzione di prolungamento cui si è fatto dettagliato riferimento all’inizio del racconto. Anticipando adesso un po’ di più i calcoli e prendendo come dato medio un’altezza di tre metri per ciascuno dei piani, incluso lo spessore del pavimento che li separa, troveremo, compresi anche i dieci piani sotterranei, un’altezza totale di centosettantaquattro metri. Se moltiplichiamo questo numero per i centocinquanta metri di larghezza e per i trecentocinquanta metri di lunghezza, avremo come risultato, salvo errore, omissione o confusione, un volume di nove milioni centotrentacinque mila metri cubi, palmo più palmo meno, punto più virgola meno.
Il Centro, non c’è una sola persona che non lo riconosca con sgomento, è veramente grande. Ed è lì, ha detto Cipriano Algor a denti stretti, che il mio caro genero vuole che io vada a vivere, dietro una di quelle finestre che non si possono aprire, per non alterare la stabilità termica per l’aria condizionata, dicono loro, ma la verità è un’altra, le persone possono suicidarsi, se vogliono, ma non lanciandosi da centro metri di altezza sulla strada, è una disperazione che dà troppo nell’occhio e stuzzica la curiosità morbosa dei passanti, che vogliono sapere perché. Cipriano Algor ha già detto, non una, ma tante volte, che non acconsentirà mai a venire ad abitare nel Centro, che non rinuncerà mai alla fornace che è stata d suo padre e di suo nonno, e perfino Marta, la sua unica figlia, pure lei, che, poverina, non potrà far altro che accompagnare il marito quando sarà promosso guardiano residente, ancora due o tre giorni fa ha saputo comprendere, con grata franchezza, che la decisione finale potrà prenderla solo il padre, senza essere forzato da insistenze e pressioni di terzi, anche se dovessero giustificarle l’amore filiale, o quella piagnucolosa pietà che i vecchi, anche quando la rifiutano, suscitano nell’anima delle persone ben educate. Non ci vado, non ci vado, non ci vado, neanche se mi ammazzate, borbottò il vasaio, consapevole tuttavia che queste parole, proprio perché sembravano tanto radicali, tanto conclusive, potevano forse fingere una convinzione che in fondo non sentiva, mascherare una debolezza interiore, come una crepa ancora invisibile nella parete più sottile di una brocca.