Riportiamo la Recensione di Claudia Consoli, che ci è sembrata molto valida, trovata sul sito Critica Letteraria
“Avevo viaggiato dalla mia quiete nella non speranza, ed ero in viaggio ancora, e il viaggio era anche conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia”.
“Conversazione in Sicilia” è un libro della memoria. La parola stessa si fa veicolo del ricordo e della riscoperta di un passato che è allo stesso tempo individuale e collettivo, personale e mitico. Il viaggio iniziatico del protagonista prende le mosse dalla stazione di Bologna per approdare ad una Sicilia offesa e dimenticata, terra che Vittorini – Silvestro aveva lasciato tempo prima, in cui si collocano dei ricordi di infanzia e adolescenza adesso pronti a riaffiorare, nella quale è avvenuta la sua scoperta del mondo; terra fuori dal tempo e dallo spazio (lo stesso protagonista definisce il suo un viaggio in una quarta dimensione). Il tutto prende avvio da un disagio esistenziale. La condizione di Silvestro Ferrauto , la sua angosciosa “quiete nella non speranza” rimanda a quella di tutti gli intellettuali che ,come Vittorini, maturavano la consapevolezza della difficoltà dell’azione negli anni della Guerra Civile Spagnola, anni in cui il fascismo cambiava volto deludendo anche le aspettative di chi aveva aderito al cosiddetto “fascismo di sinistra” credendo nella possibilità di una rivolta a sfondo popolare contro il conformismo borghese. Silvestro parte da questa indifferenza ma lo anima anche la segreta speranza di superare i suoi astratti furori:
“ Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare, nell’astrazione di quelle folle massacrate, e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Sicilia, alle montagne, nel lamento del mio piffero interno e in qualcosa che poteva anche non essere una così scura quiete e una così sorda non speranza”).
Il viaggio di tre giorni che lui compie ha valore innanzitutto simbolico, lo porta al contatto con un’umanità offesa e si configura ,appunto, come “conversazione”. L’incontro con le figure simbolo è sempre all’insegna di dialoghi, in genere caratterizzati da iterazioni anaforiche e da un alone di indeterminatezza, che coincidono con delle tappe emotive significative: l’Uomo delle arance e la sua Piccola Moglie afflitti dalla miseria,i burocrati del Regime Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo, unico rappresentante di un’umanità fiera che aspira alla libertà ed è più “pronta per altri doveri”. È a lui che l’autore affida uno dei messaggi di contenuto etico – politico più incisivi.
E prosegue ancora il viaggio di Silvestro nel mondo della madre e in quello archetipico delle madri (David per primo ha suggerito, a proposito, lo “schema epico della discesa delle madri”) e il tutto è proustianamente accompagnato da ricordi che affiorano tempestivamente in lui: le montagne, lo zolfo, i fichi d’india, l’odore dell’aringa che la madre Concezione (il nome non è certo casuale!) cucinava per lui, il braciere di rame in mezzo alla cucina. La donna conduce una sorta di iniziazione del figlio portandolo con sé nel suo “giro delle iniezioni” ed è qui che Vittorini sa, a mio parere, rendere perfettamente l’idea di un’umanità afflitta restituendoci l’immagine di stanze completamente al buio nelle quali gli uomini siano ridotti a pure ombre e voci, antri quasi sotterranei. Ma oltre a ciò l’autore affida alla madre, così come agli altri personaggi, un messaggio da dare a Silvestro e che, nel caso di lei, si esplica soprattutto nella contrapposizione fra la figura del debole marito ferroviere e attore shakespeariano e quella del padre (il nonno di Silvestro) molto diverso perché fiero e dotato di senso del dovere. E il viaggio si potrebbe ancora commentare attraverso le figure dell’arrotino Calogero, di Ezechiele e di Porfirio, che consegnano nuovi messaggi sul mondo offeso, sulla possibilità di una salvezza, o anche solo di esorcizzare i dolori dell’umanità. Altamente significativa è l’alternanza di immagini ariose e “celesti” come quella dell’aquilone che vola alto nel cielo siciliano ed altre buie ed “asfissianti” come quella della taverna “sotterranea” dell’oste Colombo. Contrapposizioni che, come sempre in Vittorini, hanno valore reale e simbolico assieme.
L’ultima parte del viaggio è dominata da figure inconsistenti, immateriali: spiriti che gli rivolgono dei messaggi indeterminati, allusivi (l’”ehm” del fratello Liborio) e che assieme a lui compiono l’ultima tappa del suo itinerario: la processione alla statua dell’ ignuda donna di bronzo. Il protagonista ha adesso raggiunto la consapevolezza che il suo viaggio sia stato circolare, che lo abbia ricondotto alla posizione di partenza e quindi, forse, non vi sia stato reale superamento delle iniziali istanze: “Questa fu la mia conversazione in Sicilia, durata tre giorni e le notti relative, finita com’era cominciata”.
In tutto questo si legge la riflessione vittoriniana sulla possibilità di una salvezza dall’indifferenza (quel “credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario”, quella “voglia di perdersi, ad esempio,con lui”), di un approdo ultimo che lui ricerca nella letteratura, nell’impegno politico – civile o in fondo in una letteratura come impegno politico – civile visto che, forse mai come nel caso di Vittorini, le due componenti non possono essere scisse e costituiscono i due poli di un’ opposizione che sempre lo animerà, portandolo a contraddirsi e superarsi. Conversazione in Sicilia è stato letto come romanzo “onirico”, come critica al fascismo e alla sua retorica della vittoriosa morte in guerra, come opera di ispirazione “decadente” incentrata sul tema del viaggio “a rebours”. Personalmente ritengo che sia tutto questo assieme e molto altro ancora, che dentro vi siano raccolti tutti i “furori” dell’intellettuale Vittorini che riflette sugli orrori della guerra, sui compiti della letteratura in un mondo in cambiamento, sul ruolo complesso dell’intellettuale nella società contemporanea. E lo fa con il suo tipico “realismo magico”, cioè consegnandoci una storia che è realistico – simbolica e che infatti, in certi passi, ha qualcosa che ricorda il realismo verghiano, ma anche il simbolismo di fine Ottocento. Ma gli echi letterari non finiscono qui: il dialogo secco ed incisivo ricorda anche la prosa di Hemingway e rivela l’influenza che gli scrittori americani ebbero sulla scrittura e sull’immaginario di Vittorini e degli altri che, come lui, coltivavano questo sogno ,letterario e non, di un’ America come terra delle infinite possibilità, del trionfo di una libertà a loro negata e luogo di un possibile rapporto dialettico col reale. Il lettore riesce quasi a percepire con i sensi la Sicilia che l’autore siracusano descrive, a sentirne odori e sapori, a intravederne i tramonti ed i colori, ma allo stesso tempo “ la Sicilia è solo per avventura la Sicilia, solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela “. Del resto a Vittorini piace immaginare che “ … tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia”.
Claudia Consoli