Da quella notte non riesco più a ridere degli uomini comuni
Giovanni Papini (1871-1956) (Estratto del racconto IL MENDICANTE DI ANIME)
Non sono quello che credete, signore, non sono un pazzo. Sono soltanto qualcosa di simile, cioè uno scrittore. Debbo scrivere per domani un racconto e questo racconto mi salverà dalla fame ed io voglio che mi diciate chi siete e qual è stata la vostra vita fino qui, perché possa farne l’argomento della mia novella. Ho assolutamente bisogno di voi, della vostra confessione, della vostra vita. Non mi negate questa grazie, non rifiutate a un miserabile questo aiuto. Voi siete quello che io cercavo e colla materia che mi darete scriverò forse il mio capolavoro!
A queste parole l’uomo parve commuoversi e non mi guardò più con terrore, ma piuttosto con pietà.
Se proprio la mia vita vi è così necessaria, disse, non ho nessuna difficoltà a raccontarvela, tanto più ch’essa è di una perfetta semplicità. Nacqui trentacinque anni fa da genitori agiati, onesti e ben pensanti. Mio padre era impiegato, mia madre aveva una piccola rendita. Fui l’unico figlio e a sei anni fui messo a scuola. A undici anni ebbi la licenza elementare senza ch’io avessi studiato troppo o troppo poco. A undici anni entrai al ginnasio, a sedici al liceo, a diciannove all’Università, a ventiquattro fui laureato senza dar prove d’intelletto troppo brillante o di stupidità irrimediabile. Quando fui laureato mio padre mi procurò un impiego alle ferrovie e mi presentò la mia fidanzata. Il mio impiego mi occupa otto ore al giorno e non richiede che un po’ di memoria e di pazienza. Ogni sei anni il mio stipendio aumenta automaticamente di duecento lire. Io so che a 64 anni avrò una pensione di 3453 lire e 62 centesimi. La mia fidanzata mi conveniva e la sposai un anno dopo. Non ci sono mai stati fra noi inutili sentimentalismi. Andavo a farle visita tre volte la settimana e due volte l’anno -per la sua festa e per Natale- le portai due regali e le detti due baci. Ho avuto da lei due figli: un maschio e una femmina. Il maschio ha dieci anni e farà l’ingegnere; la femmina ha nove anni e farà la maestra. Io vivo tranquillo, senza scosse e senza desideri. Mi alzo ogni mattina alle otto e alle nove di sera vado in un café ove parlo della pioggia e della neve, della guerra e del ministero con quattro colleghi dell’ufficio. Ed ora che vi ho contentato lasciatemi andare perché è già passata da dieci minuti l’ora alla quale debbo tornare a casa.
E detto tutto questo con grande calma l’uomo si mosse per andarsene.
Rimasi per un momento come sconvolto dal terrore. Quella vita monotona, comune, regolare, prevista, misurata, vuota mi riempì d’una tristezza così acuta, d’uno spavento così intenso ch’io fui quasi per rompere in pianto e fuggire. Eppure mi trattenni ancora. Ecco, dissi fra me, il famoso uomo normale e comune in nome del quale i medici austeri ci disprezzano e ci condannano come dementi e degenerati! Eccolo l’uomo modello, l’uomo tipo, il vero eroe dei nostri giorni, la piccola ruota della grande macchina, la piccola pietra della grande muraglia – l’uomo che non si nutre di sogni malsani e pazze fantasie. Quest’uomo che io credevo impossibile, inesistente, immaginario eccolo qua dinanzi a me – pauroso e terribile nell’incoscienza della sua incolore felicità.
Ma l’uomo non attese la fine dei miei pensieri e si mosse per andarsene. Esterrefatto ancora, ma pure ostinato io gli fui dietro e gli chiesi: Veramente non c’è altro nella vostra vita? Non v’è accaduto mai nulla? Nessuno ha cercato di uccidervi? Vostra moglie non vi ha tradito? I vostri superiori non vi hanno perseguitato?
Niente di tutto ciò m’è accaduto, rispose con una cortesia un po’ seccata, proprio niente di tutto ciò che mi dite. La mia vita è trascorsa calma, eguale, regolare, senza troppe gioie, senza troppi grandi dolori, senza avventure…
Proprio nessuna avventura, signore – lo interruppi, proprio nessuna? Cercate di ricordarvi bene, frugate nella vostra memoria, non posso credere che non vi sia accaduto proprio nulla, mai, neppure una volta. La vostra vita sarebbe veramente troppo orribile!
Vi assicuro proprio che non ho avuto nessuna avventura, rispose l’Uomo Comune con un estremo sforzo di gentilezza, almeno fino stasera. L’incontro con voi, signor novelliere, è stata la mia prima avventura. Se proprio ne avete bisogno, raccontate questa.
E senza darmi il tempo di rispondergli se ne andò toccandosi leggermente il capello. Io rimasi ancora alcuni momenti fermo in quel punto come sotto l’incubo di una cosa incredibile. Tornai la mattina alla mia camera e non scrissi la novella.
Da quella notte non riesco più a ridere degli uomini comuni.