ECONOMIA MODERNA – Come siamo arrivati alla vita di oggi (da ‘L’invenzione dell’economia’ di Serge Latouche)

 

196882_10150154048490781_2632496_nRiporto alcuni passaggi, che ho trovato interessanti, dal libro ‘L’invenzione dell’economia’ di Serge Latouche, per provare a fare una breve riflessione storica sull’Economia e sul Lavoro: le origini, gli sviluppi.. per arrivare, forse, a riportarne un senso reale e giusto nei confronti della vita dell’uomo.

O almeno, quello che in ipotesi ne sarebbe lo scopo: quello che la ‘vita creata’ dall’Economia e del Business dovrebbe essere nella vita di una persona, e non l’esistenza stessa della persona: esserne una parte per comodità, non il tutto perché si.

Il rapporto di scambio naturale M-D-M (merce-denaro-merce), che corrisponde al vendere le proprie eccedenze per comperare ciò di cui si ha bisogno, si corrompe nel rapporto mercantile D-M-D, che corrisponde al comperare al minor prezzo possibile per vendere al maggior prezzo possibile e guadagnare quindi denaro. Questo ribaltamento appare assolutamente condannabile agli occhi dello Stagirita, non soltanto perché antinaturale, ma ancor più perché anticivico. Fare denaro col denaro è un obiettivo inconciliabile col la ricerca del bene comune. Un mondo fondato sul guadagno è incompatibile con la cittadinanza, e ancor meno con l’isonomia – uguaglianza -, e beninteso con la giustizia.

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 Anche in questo, il rapporto economico non differisce veramente dal rapporto politico, nel quale ogni forma corre il rischi di imbastardirsi: la monarchia in tirannia, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia in demagogia. Tuttavia, l’abuso economico è ancora più insidioso, e inoltre la corruzione degli scambi mercantili e monetari è largamente responsabile della corruzione politica.

Volendo dire le cose crudamente e con un elemento di forzatura, il lavoro è un’invenzione della borghesia. Per screditare l’aristocrazia, la borghesia in ascesa ha sviluppato, tra il XVI e il XVIII secolo, una propaganda lavorista con lo slogan: Chi non lavora non mangia.

Con essa si vuole dire: noi, i borghesi delle città, lavoriamo sodo per produrre il benessere di tutti, e dunque abbiamo un diritto legittimo alla ricchezza e al potere.

I contadini e i manovali non potevano che approvare questa ideologia e solidarizzare con la borghesia artigianale e commerciante. Il fatto curioso della vicenda, è che in realtà neppure i borghesi lavorano veramente.

Questo paradigma è il risultato della giustapposizione contraddittoria di un immaginario emancipatore e di una realtà di asservimento. L’immaginario è quello dell’homo faber – o dell’Homo Habilis – e più precisamente l’ideologia dell’artigiano libero che vive del frutto della sua abilità a trasformare la natura per il soddisfacimento dei nostri bisogni.

La realtà invece è quella dell’alienazione specifica al rapporto salariale. La condizione penosa dell’Homo Laborans che segue nel quadro di un rapporto subordinato compiti per lo più gravosi in una fabbrica o in un ufficio. È la sottomissione formale e reale al capitale, senza il controllo tecnico del processo né ovviamente la capacità economica di riappropriarsi del frutto della propria attività.

L’ideologia economica nella quale siamo immersi ci ha abituato a credere fermamente che tutte le società hanno una vita economica e ricorrono al lavoro per sopravvivere. Questa naturalizzazione dell’economia non regge a un esame antropologico e storico serio.

Nessuno potrà contestare che la parola lavoro nell’accezione attuale si a di recente invenzione. Le cose stanno invece diversamente per il suo contenuto, in quanto si è tentato di assimilare l’Animal Laborans dei tempi moderni all’Homo Habilis o Faber di sempre. Mostrare che il lavoro viene inventato nella società moderna significa far comprendere che la società greca, latina e medievale, che abbiamo l’abitudine di considerare la matrice de nostro mondo contemporaneo, sono, da questo punto di vista, molto più vicine alle società primitive che alle nostre.

L’ordine sociale naturale implica un’antropologia naturalista. Tutto l’edificio delle scienze sociali contemporanee si fonda dunque su un ipotesi implicita di antropologia naturalista, di cui l’Homo Oeconomicus è la figura più compiuta. Questa ipotesi si riassume nella formula: esiste una natura umana – natura naturalmente naturale. Come mostra l’economia politica, la sussistenza dell’uomo è il fondamento della società. Animale naturale, l’uomo è un soggetto di bisogni materiali.

Se trionfa nell’economia politica, questa antropologia è comunque alla base di tutte le scienze sociali. Di fatto l’antropologia naturalista rappresenta un modo di definire l’ordine sociale naturale, e in quanto tale costituisce il fondamento della scienza sociale come fisica sociale.

L’individuo è sede dell’azione di forza contrarie indipendenti dalla sua volontà. Queste forze di attrazione e repulsione governano la gravitazione politica e sociale. L’attrazione per il piacere diventerà naturalmente una propensione a consumare, mentre la repulsione per la sofferenza e la morte diventerà rapidamente ripugnanza per il lavoro gratuito.

L’utilità della nuova invenzione non si è fatta attendere. In fin dei conti, l’ordine sociale naturale altro non è che quello del capitalismo. E la scienza sociale serve a dimostrare che gli interessi della borghesia sono leggi altrettanto rigorose e intangibili di quelle di Archimede.

Il governo, sostiene Burke, non può nulla contro la miseria, non è di competenza del governo in quanto governo, o dei ricchi in quanto ricchi, dare ai poveri il necessario che la divina provvidenza ha deciso di rifiutare loro. E aggiunge in modo significativo: dobbiamo renderci conto che non è contravvenendo alle leggi del commercio, che sono leggi di natura e dunque leggi di Dio, che possiamo sperare di addolcire lo sdegno divino.

Un ordine immutabile risparmia al despota il compito ingrato assegnato un tempo al re-filosofo platonico di legiferare sul numero di cittadini, il colore dei loro abiti, le loro fortune. Il cambiamento, nella forma regolata dell’accumulazione illimitata di ricchezze da parte di cittadini privati, e definiti progresso e sviluppo, scaturisce da questo stesso rodine immutabile. Mentre in precedenza nessuno sviluppo di una città ordinata era concepibile, e ogni cambiamento quantitativo era disordine, ora il numero viene liberato, la qualità dell’ordine risiede per l’appunto del dispiegamento della quantità. Il fine della società, o piuttosto qualsiasi fine diverso da quello dell’accumulazione per l’accumulazione, non presiede più all’ordine della società stessa, in quanto può essere istituito un ordine spontaneamente conforme agli interessi di tutti.

È sufficiente che il bene comune venga giudicato compatibile con il perseguimento dell’interesse personale egoistico e che vi sia un principe in grado di imporre e di far rispettare le regole del gioco – la proprietà privata e la concorrenza.

Con Margareth Thatcher e Ronald Reagan sarà cosa fatta…

*Testo: ‘L’invenzione dell’economia’ di Serge Latouche

*Foto: un opera dell’artista Banksy

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