Riporto alcuni passaggi, che ho trovato interessanti, dal libro ‘L’invenzione dell’economia’ di Serge Latouche, per provare a fare una breve riflessione storica sull’Economia e sul Lavoro: le origini, gli sviluppi.. per arrivare, forse, a riportarne un senso reale e giusto nei confronti della vita dell’uomo.
O almeno, quello che in ipotesi ne sarebbe lo scopo: quello che la ‘vita creata’ dall’Economia e del Business dovrebbe essere nella vita di una persona, e non l’esistenza stessa della persona: esserne una parte per comodità, non il tutto perché si.
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Il rapporto di scambio naturale M-D-M (merce-denaro-merce), che corrisponde al vendere le proprie eccedenze per comperare ciò di cui si ha bisogno, si corrompe nel rapporto mercantile D-M-D, che corrisponde al comperare al minor prezzo possibile per vendere al maggior prezzo possibile e guadagnare quindi denaro. Questo ribaltamento appare assolutamente condannabile agli occhi dello Stagirita, non soltanto perché antinaturale, ma ancor più perché anticivico. Fare denaro col denaro è un obiettivo inconciliabile col la ricerca del bene comune. Un mondo fondato sul guadagno è incompatibile con la cittadinanza, e ancor meno con l’isonomia – uguaglianza -, e beninteso con la giustizia.
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Anche in questo, il rapporto economico non differisce veramente dal rapporto politico, nel quale ogni forma corre il rischi di imbastardirsi: la monarchia in tirannia, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia in demagogia. Tuttavia, l’abuso economico è ancora più insidioso, e inoltre la corruzione degli scambi mercantili e monetari è largamente responsabile della corruzione politica.
Volendo dire le cose crudamente e con un elemento di forzatura, il lavoro è un’invenzione della borghesia. Per screditare l’aristocrazia, la borghesia in ascesa ha sviluppato, tra il XVI e il XVIII secolo, una propaganda lavorista con lo slogan: Chi non lavora non mangia.
Con essa si vuole dire: noi, i borghesi delle città, lavoriamo sodo per produrre il benessere di tutti, e dunque abbiamo un diritto legittimo alla ricchezza e al potere.
I contadini e i manovali non potevano che approvare questa ideologia e solidarizzare con la borghesia artigianale e commerciante. Il fatto curioso della vicenda, è che in realtà neppure i borghesi lavorano veramente.
Questo paradigma è il risultato della giustapposizione contraddittoria di un immaginario emancipatore e di una realtà di asservimento. L’immaginario è quello dell’homo faber – o dell’Homo Habilis – e più precisamente l’ideologia dell’artigiano libero che vive del frutto della sua abilità a trasformare la natura per il soddisfacimento dei nostri bisogni.
La realtà invece è quella dell’alienazione specifica al rapporto salariale. La condizione penosa dell’Homo Laborans che segue nel quadro di un rapporto subordinato compiti per lo più gravosi in una fabbrica o in un ufficio. È la sottomissione formale e reale al capitale, senza il controllo tecnico del processo né ovviamente la capacità economica di riappropriarsi del frutto della propria attività.
L’ideologia economica nella quale siamo immersi ci ha abituato a credere fermamente che tutte le società hanno una vita economica e ricorrono al lavoro per sopravvivere. Questa naturalizzazione dell’economia non regge a un esame antropologico e storico serio.
Nessuno potrà contestare che la parola lavoro nell’accezione attuale si a di recente invenzione. Le cose stanno invece diversamente per il suo contenuto, in quanto si è tentato di assimilare l’Animal Laborans dei tempi moderni all’Homo Habilis o Faber di sempre. Mostrare che il lavoro viene inventato nella società moderna significa far comprendere che la società greca, latina e medievale, che abbiamo l’abitudine di considerare la matrice de nostro mondo contemporaneo, sono, da questo punto di vista, molto più vicine alle società primitive che alle nostre.
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L’ordine sociale naturale implica un’antropologia naturalista. Tutto l’edificio delle scienze sociali contemporanee si fonda dunque su un ipotesi implicita di antropologia naturalista, di cui l’Homo Oeconomicus è la figura più compiuta. Questa ipotesi si riassume nella formula: esiste una natura umana – natura naturalmente naturale. Come mostra l’economia politica, la sussistenza dell’uomo è il fondamento della società. Animale naturale, l’uomo è un soggetto di bisogni materiali.
Se trionfa nell’economia politica, questa antropologia è comunque alla base di tutte le scienze sociali. Di fatto l’antropologia naturalista rappresenta un modo di definire l’ordine sociale naturale, e in quanto tale costituisce il fondamento della scienza sociale come fisica sociale.
L’individuo è sede dell’azione di forza contrarie indipendenti dalla sua volontà. Queste forze di attrazione e repulsione governano la gravitazione politica e sociale. L’attrazione per il piacere diventerà naturalmente una propensione a consumare, mentre la repulsione per la sofferenza e la morte diventerà rapidamente ripugnanza per il lavoro gratuito.
L’utilità della nuova invenzione non si è fatta attendere. In fin dei conti, l’ordine sociale naturale altro non è che quello del capitalismo. E la scienza sociale serve a dimostrare che gli interessi della borghesia sono leggi altrettanto rigorose e intangibili di quelle di Archimede.
Il governo, sostiene Burke, non può nulla contro la miseria, non è di competenza del governo in quanto governo, o dei ricchi in quanto ricchi, dare ai poveri il necessario che la divina provvidenza ha deciso di rifiutare loro. E aggiunge in modo significativo: dobbiamo renderci conto che non è contravvenendo alle leggi del commercio, che sono leggi di natura e dunque leggi di Dio, che possiamo sperare di addolcire lo sdegno divino.
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Un ordine immutabile risparmia al despota il compito ingrato assegnato un tempo al re-filosofo platonico di legiferare sul numero di cittadini, il colore dei loro abiti, le loro fortune. Il cambiamento, nella forma regolata dell’accumulazione illimitata di ricchezze da parte di cittadini privati, e definiti progresso e sviluppo, scaturisce da questo stesso rodine immutabile. Mentre in precedenza nessuno sviluppo di una città ordinata era concepibile, e ogni cambiamento quantitativo era disordine, ora il numero viene liberato, la qualità dell’ordine risiede per l’appunto del dispiegamento della quantità. Il fine della società, o piuttosto qualsiasi fine diverso da quello dell’accumulazione per l’accumulazione, non presiede più all’ordine della società stessa, in quanto può essere istituito un ordine spontaneamente conforme agli interessi di tutti.
È sufficiente che il bene comune venga giudicato compatibile con il perseguimento dell’interesse personale egoistico e che vi sia un principe in grado di imporre e di far rispettare le regole del gioco – la proprietà privata e la concorrenza.
Con Margareth Thatcher e Ronald Reagan sarà cosa fatta…
*Testo: ‘L’invenzione dell’economia’ di Serge Latouche
*Foto: un opera dell’artista Banksy
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