Egli chiedeva una cosa semplicissima: perché e con quale diritto certi uomini richiudono in prigione…
Lev Tolstoj (da Resurrezione)
La terza questione riguardava l’assistenza ai detenuti che sempre più spesso si rivolgevano a lui. Sulle prime, quando un carcerato gli chiedeva aiuto, egli accettava subito di occuparsi del suo caso, di alleviare la sua sorte; ma con l’andar del tempo i postulanti erano diventati così numerosi, che sentì l’impossibilità di aiutarli tutti e fu tratto involontariamente a occuparsi della quarta questione che negli ultimi tempi lo impegnava più di tutte le altre.
Essa consisteva nel risolvere il problema: che cos’era, perché e dove era nata quella stranissima istituzione denominata tribunale penale, causa determinante delle carceri, – i cui abitanti avevano in parte conosciuto, – e di tutte le case di pena, dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo fino a Sakhaline, dove languivano centinaia di migliaia di vittime di quella legislazione penale che a lui appariva così irragionevole?
Dalle sue relazioni personali con i detenuti, dalle risposte dell’avvocato, del cappellano delle carceri, del direttore e dall’esame dei registri carcerari, N. era giunto alla conclusione che i cosiddetti delinquenti detenuti nelle prigioni si possono dividere in cinque categorie. La prima è costituita da persone completamente innocenti, vittime di errori giudiziari, come il presunto incendiario M. e altri ancora. Stando al cappellano questi casi non erano numerosi, all’incirca il 7 per cento.
La seconda categoria era formata da individui condannati per delitti commessi in circostanze puramente occasionali: ira, gelosia, ubriachezza, eccetera, delitti che nelle medesime circostanze avrebbero quasi certamente commesso tutti coloro che li giudicavano e li punivano. Secondo le osservazioni di N. più della metà dei detenuti apparteneva a questa categoria.
La terza era costituita da individui puniti per azioni che essi giudicavano usualissime se non addirittura lodevoli, ma che i legislatori estranei al loro modo di vedere le cose consideravano reati. Tali erano ad esempio i traffici clandestini di alcool, i contrabbandieri, coloro che coglievano l’erba o facevano legna nelle grandi foreste padronali o demaniali. A questa medesima categoria appartenevano i ladri di montagna del Caucaso e i miscredenti che spogliavano le chiese.
La quarta era formata da individui considerati come delinquenti soltanto perché moralmente superiori al livello medio della società. I polacchi, i circassi insorti per difendere la loro indipendenza, tali erano anche i delinquenti politici, socialisti o scioperanti, condannati per ribellione all’autorità. La percentuale di queste persone, l’elemento migliore della società, era molto alta secondo le osservazioni di N.
La quinta categoria, infine, era costituita da individui dinanzi ai quali la società era assai più colpevole di quanto non lo fossero essi dinanzi alla società: gente abbandonata a se stessa, abbruttita dalle continue angherie e dalle tentazioni, come il ragazzo delle stuoie e centinaia di altri che N. aveva veduto nelle carceri e fuori, condotti quasi fatalmente e logicamente dalle loro condizioni di vita alla necessità di commettere l’azione che viene chiamata reato. Tali erano, secondo N., numerosissimi ladri e omicidi, alcuni dei quali conosciuti da lui durante quel periodo. Tra questi includeva anche, dopo averli osservati da vicino, gli uomini corrotti e tarati che la nuova scuola chiama delinquenti tipici e la cui esistenza viene considerata la più valida riprova della necessità di una legislazione penale. Secondo N. anche questi delinquenti tipici, tarati, anormali, erano assai meno colpevoli dinanzi alla società di quanto non lo fosse la società dinanzi a loro, con la sola differenza, però, che la società non era direttamente colpevole nei loro riguardi, ma lo era nei riguardi dei loro genitori e antenati. (…)
Perché tutti questi individui così diversi erano stati rinchiusi in carcere mentre altri, in tutto simili a loro, erano in libertà e si arrogavano il diritto di giudicare? Questo era il quarto problema che impegnava l’attenzione di N.
Sulle prime aveva sperato di trovare risposta nei libri e aveva acquistato tutte le opere che trattavano questo argomento, gli studi di Lombroso e di Garofalo, di Ferri e di List, di Mautheley, di Tarde e aveva cominciato a leggerli.
Ma più procedeva nella lettura, tanto maggiore era la sua delusione. Accadeva a lui ciò che accade a chiunque si rivolga alla scienza non già per rappresentarvi una parte, per scrivere, per disputare, per insegnare, ma per porle una domanda diretta, semplice, vitale: la scienza gli forniva la risposta a migliaia di problemi molto complicati e astrusi connessi con la legislazione penale, ma non a ciò che egli chiedeva.
Egli chiedeva una cosa semplicissima: perché e con quale diritto certi uomini richiudono in prigione, tormentano, deportano, percuotono e uccidono, mentre essi stessi son esattamente come coloro che vengono tormentati, percossi, uccisi?