Giorgio Manganelli intervista Marco Polo, con intervento di Ulisse – “Le interviste impossibili”


A. Lei saprà senza dubbio, che, fra tutti gli italiani, gode di una fama che han pochi confronti: Marco Polo è per noi un amico, forse il nome di un mago, di un essere assai più che eccezionale: più che umano.
B. Nulla mi meraviglia più di questa stima, che fa di me, un mercante veneziano, un essere straordinario, un mago addirittura. Questa poi non la capisco proprio, o avete in uso, oggidì, di tenere in mercanti in stima di eroi, di Ercoli, che so io, di David? Io non ero che un mercante…
A. Ma lei fece un viaggio che nessuno aveva mai osato; lei inventò un mondo.
B. Non è compito dei mercanti industriarsi a cercare nuove strade, a patire calori di paesi assolati e geli di terre ghiacciate? E che sarà mai un mercante, un mercante dico, non un rivendugliolo, se non un curioso, un paziente, un avventuroso, un perdigiorno, anzi un perdianni, un perdivita? Magari ci vorrà coraggio, lei dirà, ma no, quasi mai; il mercante, ai nostri tempi, che discendevano dritto dai tempi di Ulisse, era sì anche un uomo di un tal qual coraggio, ma sopratutto astuzia, furbizia e pazienza.
A. Dunque, lei si giudica più astuto e paziente che ardimentoso, più un Ulisse che un Ercole…
B. Ulisse? Ho detto Ulisse? Oh, no, sono sciocche vanterie. Parlo a vanvera, adesso, con lei, come mi capitava con Rustichello, nelle prigioni di Genova, ai miei tempi. Ma forse non intendevo Ulisse: diciamo un nipotino, uno della razza; ostinato e furbo e paziente: nient’altro.
C. Sono io, Ulisse, e sento il mio nome detto e ridetto: mi sento dire coraggioso e astuto e paziente… Non credete alle chiacchiere dei poeti, dei gazzettieri, dei saltimbanchi: ha ragione Marco Polo, non conta il coraggio; anch’io, che pure non ero un mercante, e non mi intendevo di stoffe e di bracciali, non ero mica così coraggioso: ero astuto e paziente: c’è anche scritto, che il mio cuore era paziente.
B. Ulisse, ti ringrazio; vede, la comunanza di certi umori, il gusto della ciarla senile, certi bei ricordi, quello struggimento della casa, quando si era in viaggio, e dello spazio, quando si era quiete accanto al focolare; questa capacità di essere sempre felici e sempre infelici, e direi forse un poco più infelici che altro, ma non mai disperati; quel campare di ricordi diventati speranze, e insieme quel gusto dell’attesa… È così che siamo diventati amici; anche se io so ben riconoscere chi è ben maggiore di me, e mi regala una intrinsichezza che non merito.
C. Vede, la vita di uno che viaggia, sempre fisso l’occhio della mente al ricordo, è uno strano vivere, di gioia dilazionata e alla fine delusa; perché quando si ritorna, come che sia, la delusione è fatale: proprio nel senso che è voluta dal fato. Non dirò che le cene di Penelope non mi fossero care, e le passeggiate lungo il mare di Itaca con i vecchi compagni, e quel vino aspro e denso… Ma era per quello che eravamo ritornati? Non si può tornare da un gran viaggio senza diventare un trasportatore di bugie: prima si parla, si parla… e quando si vede che gli altri, i sedentari, non smettono di ridere, di batterci la mano sulla spalla, allora si tace. Ma è difficile tenere i Polifemi, o i demoni del deserto zitti nel petto: fanno un gran frastuono, specie di notte, e ti alzi dal letto, ti allontani dalla moglie, l’unica che finge di crederti, e vai a mugolare sulla spiaggia… Tanto, nemmeno lei che ci interroga, ci crederà.
(…)

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