Gli scrittori post-esotici.
Se un tempo gli scrittori post-esotici si sono impegnati in politica e in letteratura, non era per cercare di ottenere vantaggi per la propria vita individuale, o perché desideravano avvicinarsi a quelli che, con ostentata umiltà, stanno in cima al mondo, che lo governano e lo amministrano, né perché volevano essere autorizzati a parlare in nome dei padroni e in difesa dei padroni, e in cambio avere il diritto di sperare nella loro riconoscenza, di aspettarsi le pacche sulle spalle, i pasticcini e i ninnoli che i potenti elargiscono ai loro servi, siano essi politici o artisti. No, non avevano intenzione di mettersi a fare le fusa pronunciando parole servili e strusciandosi affettuosamente contro gli stivali dei padroni, immaginando di aver scelto in tutta libertà di essere asserviti, quando invece quel posto accanto agli stivali i padroni lo assegnano facendo una selezione fra tutti coloro che sono stati ammaestrati secondo la logica dei padroni. No, bisogna cercare altrove le radici del loro impegno. Bisogna spiegare altrimenti le nostre aspirazioni.
Gli scrittori post-esotici, Myriam Ossorgon, Maria Clementi, Jean Doievod, Irina Kobayaschi, Jean Edelman, Maria Schrag e molti altri, si sono impegnati in politica per tentare di rovesciare un sistema che sembrava ormai radicato per sempre sul pianeta, un sistema che favoriva l’eterna miseria, costringendo cinque miliardi di straccioni a vivere nel fango, nella polvere e nella disperazione. Si sono mobilitati per distruggere le radici e i germi della miseria, e prima di tutto per farla finita con i padroni e con i cani dei padroni. Gli scrittori post-esotici non erano degli scribacchini da strapazzo, si sono impegnati in politica con le armi, hanno scelto la strada della clandestinità e della sovversione, e senza temere né la follia né la morte si sono lanciati in una lotta in cui le possibilità di vincere erano minime, infinitesimali, e così sono diventati dei soldati e dei solitari, talmente pochi da essere quasi ridicoli sul fronte di una guerra in cui, battaglia dopo battaglia, perdevano tutto. Certe volte perdevano anche la certezza che un giorno i figli dei miserabili sarebbero nati in un mondo non avvolto dalle tenebre, non corrotto e non ingiusto. Ma non hanno mollato, hanno continuato a lottare, contando i morti e le morte e rifiutandosi di tradirli, rifiutando qualsiasi prospettiva di resa e rifiutandosi di deporre le armi, e, anche quando l’accerchiamento ideologico e militare è diventato troppo violento perché potessero ancora vivere in libertà, si sono rifiutati di modificare il loro atteggiamento di fronte al nemico e di ridimensionare i loro obiettivi, scelta che naturalmente li ha condotti nel braccio della morte o nei corridoi degli istituti di pena, dove sono stati rinchiusi come si rinchiudono gli animali pericolosi e mutanti che non si lasciano addomesticare.
Ecco cosa significa per noi impegnarci in politica.
Gli scrittori del post-esotismo ricordano senza eccezione alcuna, tutti i conflitti e gli stermini etnici e sociali che si sono susseguiti nel corso del XX secolo, non ne dimenticano e non ne perdonano nessuno, allo stesso modo serbano eterna memoria delle atrocità e delle diseguaglianze che diventano sempre più gravi fra gli uomini, e neppure per un attimo prestano ascolto ai cani dei padroni, che gli suggeriscono di adeguare la loro propaganda alla realtà e al presente – ovverso al presente e alla realtà così come li concepiscono i responsabili della miseria – e che gli consigliano di lasciare perdere quelle idee antiquate, di dichiararsi sconfitti e di passare, naturalmente dopo aver adempiuto alle formalità necessarie per uscire di prigione, dalla parte dei parolai ufficiali, per potere poi a loro volta e a loro modo partecipare all’abbellimento filosofico e politico della miseria, per esempio celebrando i vantaggi del presente e spiegando agli innumerevoli straccioni di questo pianeta che le cose si metteranno bene per loro, o almeno per i loro discendenti, se avranno pazienza, se accetteranno di vegetare ancora per un migliaio di anni senza chiedere niente.gli scrittori post-esotici voltano le spalle a questi consiglieri fatti in fondo della stessa pasta dei padroni. Ritengono che il XX secolo debba essere considerato come una successione di dieci decenni di doloro diffuso su larga scala e che il XXI secolo abbia imboccato la stessa strada, perché le cause oggettive e i responsabili di quel dolore sono rimasti immutati, e anzi continuano a rafforzarsi e riprodursi come in un interminabile medioevo.
Ecco il motivo del nostro arroccamento in una concezione radicale della rivolta.
Sebbene sopraffatti e condannati, gli scrittori del post-esotismo si sono ostinati a continuare a esistere, nell’isolamento delle sezioni di massima sicurezza o in quella clausura monacale definitiva che è la morte. Da allora il respiro gli è servito solo a garantirsi la sopravvivenza in quanto corpi inutili, diciamo pure in quanto polmoni dotati di coscienza, in quanto polmoni parlanti.
La loro memoria è diventata una raccolta di sogni. Il loro biascicare ha dato vita, a poco a poco, a libri collettivi di cui nessuno ha rivendicato con chiarezza la paternità. Hanno preso a rimuginare sulle promesse che non si sono avverate e hanno inventato mondi in cui il fallimento era sistematico e cocente come in quello che voi chiamate mondo reale.
In quello che i morti chiamano mondo reale.
I morti. La loro parola risuonava in uno spazio in cui i vivi si facevano sempre più rari. Così e solo così deve essere recepita la letteratura post-esotica: come un ultima testimonianza inutile e immaginaria, pronunciata da individui allo stremo delle forze o dai morti e per i morti. La nostra parola.
Naturalmente la nostra parola non pretende di avere una qualche utilità nella concreta lotta egualitaria che bisognerebbe combattere, fuori di prigione, per liberare dal meccanismo della miseria i cinque o sei miliardi di persone che vi sono immerse. Ciò che le azioni militari non hanno neppure scalfito non potrà certo essere minacciato o infranto da qualche parola scritta. Lo sappiamo. Non ci facciamo illusioni in proposito.
Non proviamo nessun compiacimento nel maneggiare le parole, anche se sappiamo che la nostra poesia non è paragonabile alle imposture servili prodotte in gran quantità dai verbosi lacché dei padroni. Siamo consapevoli della nostra marginalità. In un universo in cui il proliferare dei discorsi è terreno fertile per gli artefici della miseria, su questo ignobile palcoscenico dove il susseguirsi continuo dei dibattiti è solo un cinico schermo dietro il quale i padroni continuano ad avere le mani libere, il discorso non ha né potere né forza. Ora noi non viviamo più in quell’universo, ma neppure la fortezza in cui siamo stati rinchiusi è un luogo in cui dire le cose permette di cambiare le cose. La parola post-esotica si esaurirà quando sarà scomparso l’ultimo dei nostri scrittori, e nessuno in nessun luogo se ne accorgerà. Tuttavia, finché avremo un po’ di fiato in gola, rinnoveremo ancora e ancora la magia insensata di questa parola, ci inoltreremo nel linguaggio e diremo il mondo.