Ho fatto voto:
pronunciavo nella mia testa questa piccola frase.
Questo piccolo dato di fatto.
Perché in questo momento, ieri sera ufficialmente, con me stesso almeno, ho fatto un voto.
Voto che non dirò ovviamente,
-a meno che pensiate di poter capire il senso delle parole di una persona, ascoltandone solo la prima e l’ultima frase di un discorso-,
questo è un pensiero, senza un necessario senso, o un necessario voto.
Però pensavo alla frase di per sé. Sul dire ho fatto voto.
Sulla potenza della frase, l’importanza che sembra gravare con il suo pronunciarla, la frase: ho fatto voto!, si fa sentire.
La potenza delle parole, con il loro uso e significato e significazione, si può ordinare un mondo: dalle lingue si capisce un popolo.
Per questo sono decisamente contro l’uso indiscriminato di un’unica lingua mondiale, come è, o aspira da sempre ad essere, l’inglese, che dovrebbe invece utilmente servire in condizioni in cui non s’arrivi a comunicare nemmeno parole, o richieste, fondamentali, vitali. Non per parlare, conoscersi, confrontarsi.
Chi ama viaggiare, pensa di stare, e di voler stare, nel mondo, ha l’obbligo morale, verso se stesso per primo, d’imparare la lingua del paese dove sta viaggiando.
Osservare attentamente il modo di dire le cose in uso in altri paesi, significa capirne le più piccole cose, non perché sia un massimo da raggiungere, ma perché questo permette così, più facilmente poi, di capire la mentalità e la cultura dell’Altro popolo.
Come una volta la chiesa imponeva il voto, il sacrificio, il negarsi un qualcosa, il preservarsi da un pericolo, imposto dalla Chiesa, oggi, i politici, oramai nemmeno più tanto sovente, domandano ai suoi sudditi-cittadini un voto, per poterli comandare, decidere per loro le leggi che poi dovranno rispettare tutti, tutti… chi le vota, non tanto chi le impone.
È il significato, il suono d’obbedienza della parola di cui parlo qui, ad interessarci: la scelta d’ ubbidire a qualcosa, qualcuno, scelto da me, imposto da altri.
Ho fatto voto, forse, suona di sé per sé, nel pronunciare la frase così, porta con se un suono pesante, un carico.
Votare per un politico, forse, un altro.
Forse.
Forse c’è un legame tra religione, o meglio, tra il sistema Chiesa, -sistema, parola tanto usata nel paese di Gomorra-, inteso come modo d’imporsi, farsi pagare dei tributi, vuoi per espiare peccati, vuoi per pagare tasse, vuoi per comprar icone, vuoi per comprar cazzate;
eppure, forse,
grazie a Lutero, o a Darwin, o forse a Kitti, l’uomo ha capito che, fare una vita da schiavo,
non dico tale da portar pietre tutte la vita per costruire una piramide, ma tale almeno da rispettare delle leggi, morali o sociali, che egli stesso trovi, in sua coscienza, assurde e senza senso, come una castità imposta, o un digiuno di protesta, o l’aspirare ad entrare in paradiso, a prendere la ‘pensione’ tanto meritata,
non ci sia molta giustizia effettiva, reale.
L’uomo del mondo del ‘progresso’, è riuscito nella sua maggioranza ad emanciparsi,
è riuscito a diventare Ateo.
Non è forse l’ora di diventare A-politici?!
E se, forse, ci fosse un qualcosa, nell’uomo,
-per l’ottimista un lento, lungo come la storia del mondo, processo d’evoluzione in libertà;
per il pessimista una caratteristica insita, e incurabilmente radicata, nell’uomo-,
un virus da debellare?!
O forse,
visto che qui si faceva un elogio della parola, sia solo questione di pensare, ripensare, solo di ridefinire chiaramente, e inequivocabilmente per tutti,
una parola,
la parola
Libertà ?!
A.