IVAN BLATNY – Ił passante dimenticato della poesia ceca

Quando il Passante si svegliò al mattino,
il suo incubo mattutino
si alzò con lui
e accese il suo piccolo motore,
il suo piccolo ventilatore,
per spingere i resti della notte trascorsa verso la piena luce del giorno…

*

Per molto tempo, Ivan Blatny è esistito solo grazie alle voci. Si vocifera che le sue poesie siano state bandite o nascoste. Circolano voci sulla sua vita in esilio e sulla sua morte lontano da Praga. Si vocifera dei suoi incubi.
Ancora oggi Ivan Blatny, uno dei più grandi poeti cechi, è praticamente sconosciuto fuori dalla Cechia.
Soffocata dal regime comunista del suo Paese, la sua poesia prima della partenza per l’Inghilterra nel 1948, e naturalmente quella dell’esilio, rimasero proibite fino alla “rivoluzione di velluto”. Poiché non è stato un combattente della resistenza interna come Jaroslav Seifert o Vladimir Holan, di cui non raggiunge la grandezza o la profondità, rimane marginale nel suo Paese.
Scrisse prima nella solitudine romantica e nostalgica della sua Moravia, poi nell’effervescenza dei suoi vent’anni da poeta prodigio e nel mezzo della guerra. Poi arrivarono l’esilio, la paranoia e l’internamento psichiatrico. Ma lui ha sempre scritto fino all’ultimo respiro.
Una vita passata tra una casa di accoglienza e l’altra, senza mai conoscere una vera accettazione da parte di questo mondo. La sua voce strana e amara, con la sua pungente ironia, ancora rimane spesso troppo inascoltata.

Una vita errante e internata

Nacque il 21 dicembre 1919 a Brno, in Moravia, città natale di Leos Janacek. Era figlio di un famoso scrittore, l’autore espressionista Lev Blatny (1894-1930). Rimase orfano in tenera età e fu cresciuto dalla nonna. Iniziò a scrivere poesie al liceo. Perfettamente bilingue in ceco e tedesco, aveva una notevole padronanza del francese e dell’inglese. Fu in questa lingua che in seguito pubblicò alcune poesie. Fu rapidamente riconosciuto come un poeta prodigio sulla scia di Jaroslav Seifert, ma anche della poesia francese contemporanea, in particolare di Apollinaire, che lo affascinò. I suoi studi universitari furono interrotti dalla chiusura delle università nel 1939. Iniziò a guadagnarsi da vivere lavorando nel negozio di ottica dei nonni.
L’invasione nazista lo costrinse a nascondersi. Nel 1942 si unì al “Gruppo 42”, composto da poeti, pittori e filosofi. Come altri, credeva in un futuro luminoso e nella liberazione del suo Paese. Ma la presa del potere da parte dei comunisti nel 1948 (colpo di Stato di Praga) gli fece capire rapidamente che non sarebbe stato altro che uno schiavo nel suo paese. Approfittando dell’assegnazione di una borsa di studio per l’Inghilterra, scelse l’esilio definitivo nel marzo 1948. Voleva fuggire da quello che chiamava “il terrore freddo”. Gli è stato concesso asilo politico. La sua vita in Inghilterra fu tragica, crocifisso tra estrema povertà e malattia. Soffrendo di continue sindromi di persecuzione (schizofrenia), sprofondò nella malattia mentale. Passerà da un ospedale psichiatrico all’altro. Brevemente nel 1948 (ospedale Friern-Barnet di Londra), poi all’ospedale psichiatrico Claybury nell’Essex; poi per più di dieci anni a partire dal 1954 presso Essex, Ipswich. La radio ufficiale ceca annunciò con gioia la sua morte.
Dal 1948 al 1954 lavorò per un certo periodo alla BBC e a Radio Free Europe. Durante i suoi soggiorni imparò l’italiano e lo spagnolo e scrisse molte poesie. Nel 1954 venne nuovamente ricoverato al Claybury Hospital.
Nel 1969, dopo la visita di alcuni amici, ricominciò a scrivere, dopo aver smesso negli anni Cinquanta e Sessanta. Scrive altrettanto bene in ceco e in inglese.
Nel 1977 fu trasferito al St. Clement’s Hospital, Bixley Ward – Warren House, Ipswich. Un incontro con alcuni amici gli permette di salvare i suoi manoscritti, che fino ad allora erano stati distrutti dagli inservienti.
Nel 1979 riuscì a pubblicare Old Residences in Canada. Nel 1982 la BBC realizzò un documentario su di lui. All’epoca i suoi libri erano ancora vietati a Praga.
Morì ignorato da tutti, povero e dipendente dall’assistenza sociale, nell’ospedale di Colchester, il 5 agosto 1990, alle 12.45, in questa terra di esilio inglese. Poche ore prima della morte, stava ancora scrivendo poesie. Le sue ceneri furono poi rimpatriate nel cimitero centrale di Brno il 2 maggio 1991.

Quest’uomo, incapace di vivere nella vita quotidiana, pur descrivendola, era ancorato solo alle poesie che scarabocchiava durante le sue peregrinazioni.

Una poesia della vita contro la vita

Tra le tante cose, ha scritto una serie di poesie-lettere indirizzate a Petr Král.
È impressionante come la sua poesia passi dal lirismo all’amaro sproloquio. Il bilinguismo, soprattutto ceco e inglese, martella la sua poesia, rendendola cruda e allucinata. Già nelle sue struggenti poesie di guerra, l’amarezza è percepibile e non potrà che aumentare. Utilizza un collage di lingue e sentimenti. Parte dalla superficie delle cose, dalla quotidianità più elementare, per esalare la sua derisione. Persino il nulla assoluto gli è precluso. La sua poesia non è né oscura né metafisica. Oscilla tra l’influenza di Jaroslav Seifert, “il meraviglioso Seifert” come scrive Blatny, e poi un appiattimento del mondo attraverso il monotono realismo della vita quotidiana, tinto di nera ironia. Si passa da una poesia vicina a Rilke a una poesia quasi feroce, che a volte elenca le sue faccende quotidiane, i titoli dei giornali letti, i pastiches, gli innumerevoli collage di nomi propri di luoghi e di parole straniere. La musicalità degli inizi è infranta dalle numerose pause nelle parole.
Ivan Blatny sembra scrivere una poesia della vita contro la vita. Dal profondo dei suoi manicomi psichiatrici, sogghigna contro la vita, a volte con soffi nostalgici della sua lontana Moravia, della felicità scomparsa. È il passante, l’anonimo, colui che si confonde e scompare nella banalità della vita quotidiana.

L’originalità di mescolare più lingue in una stessa poesia è più di un collage, perché il significato si rivela solo attraverso l’intreccio di lingue, non giustapposte, ma che si irrigano a vicenda.

Ivan Blatny è scivolato sulla superficie delle cose come un pattinatore, non accettando alcuna gerarchia nelle sue impressioni, dove una partita di tennis a Wimbledon o una partita di calcio hanno la stessa importanza delle citazioni di Rilke e Seifert. È il mondo dei ricordi che conta, e i flussi di coscienza che lo agitano. Non si tratta di una battaglia per la memoria, ma della lenta invasione di un tempo congelato. Ivan Blatny è il Passante, ma un passante immobile e congelato. E il tempo scorre, ma senza di lui.

Alcune poesie ancora inedite in italiano 

Terzo

Sto aspettando la mia badante
-È la morte.
…………………….
Ma i ragazzi stanno partendo.

(Langston Hughes)

Sto aspettando la mia badante
-È la morte.
È ancora in giro da qualche parte per strada,
È in giro fuori casa.
E le cose sul tavolo sono già piene di lei,
E le cose sul tavolo sono già piene di lei:
le carte, i libri, la brocca.
Sto aspettando la mia badante.
È la morte.
Arriva a passo di lumaca, si deposita come polvere
invisibile ancora, ma presente.
Riesco a percepirla mentre si fa strada tra le macerie.
che sono lì dalla prima incursione.
Domenica mattina. I cannoni aggiustano il tiro.
E il freddo fischia tra i rami ancora spogli.
Una fisarmonica annuncia la primavera,
Una fisarmonica annuncia la primavera
Attraverso i corridoi, attraverso i cortili.
Una banderuola scatta all’indietro in cielo.

Sto aspettando la mia badante.
È la morte.
Leggo tra le cose sul tavolo
Le carte, i libri… il sonno.
Chiamato dai rimpianti. (Albertine, Tu.)
Ma l’Europa sta partendo.

4 marzo 1945

*

Quarto
a František Halas

Un abbandono sconfinato, uno strato di polvere,
Giaceva sulle travi e sulle pietre,
Un abbandono senza limiti, il giorno calava.
Un abbandono senza limiti, uno strato di polvere,
Giaceva sulle travi e sulle pietre,
Un abbandono senza limiti, il giorno calava.
Rari fiocchi di neve brumosa
picchiettavano i volti rannicchiati nei tram,
In città di nuovo ruggiva il cannone.

Un abbandono sconfinato, polvere, friabile,
Giaceva sui libri e sui tavoli,
Un abbandono senza limiti, man mano che il giorno passava.
Un abbandono senza limiti, polveroso e friabile,
giaceva sui libri e sul tavolo,
Un abbandono sconfinato, il giorno calava.
La porta di un edificio, come spesso accade,
Apriva il passaggio a un passeggiatore notturno, lento,
– E la neve gli mordeva la schiena, capitolando.

Pagina aperta dove scrivevano la fiacca, la paura e la guerra.
nascondendosi tra le travi e le pietre,
Un abbandono senza limiti, man mano che il giorno avanzava.

Pagina aperta dove scrivevano la fiacca, la paura e la guerra.
Nascondendosi tra le travi e le pietre,
Un abbandono senza limiti, il giorno calava.
E le facce strette vita contro vita
Ne formavano un unico, infimo punto,
Mentre in città ruggiva il cannone.

11 marzo 1945

*

Quinto

Dove potrai mai essere adesso, in questo preciso momento?
In questo preciso istante,
In questo preciso momento, oggi, quando inizio a
a scrivere.
È quella famosa domenica vuota,
Quella ben nota voce, strascicata, cantilenante
Disperatamente monotona, ancora, ancora, ancora
Disperatamente monotona, ancora, ancora, ancora
E ancora e ancora.
Una formula incantatoria
Vola da un balcone all’altro: Merde!
Nel profondo silenzio risponde gravemente
Das deutsche Volkskonzert.

Dove potrai mai essere adesso, in questo preciso momento?
In questo preciso istante,
Nell’istante preciso in cui leggi questa poesia.
È stato dopo la guerra? Era autunno? Era
primavera? Qualcuno fuori mi accompagnava con la chitarra
Ed ero io a suonare.
È quella famosa domenica vuota,
Bouquet, poltrona, nastri e così via.
A casa vostra non c’era nessuno, lei era partita con il suo amante.
Un signore vestito di nero stava trascinando una funebre corona di fiori
È quella famosa domenica vuota.

Ricordati, Albertine, di quei giorni,
Una farfalla bianca giaceva a terra,
Si scavavano trincee, le bombe cadevano su Praga,
Una farfalla bianca appassita, gelata.
Avreste dovuto ucciderla”, disse Françoise,
Farà le uova, che disastro!
Ricordati, Albertine, di quei giorni!
Das deutsche Volkskonzert stava trascinando una funebre corona di fiori da qualche parte.
Quella ben nota voce, strascicata, cantilenante.
Disperatamente monotona, ancora, ancora, ancora
Disperatamente monotona, ancora, ancora, ancora
E ancora e ancora.

(Il Concerto del Popolo Tedesco, 1945)

*

Notturno

Nella notte, quando il grano si illumina,
Nei granai che la luce della luna disegna,
Ogni chicco di grano brilla per lui,
Le streghe vengono portate dalle loro scope fino al cielo.
L’idiota del villaggio, che pensa di non morire mai,
si alza e torna verso Morton Morell.
Lo seguo per un po’. Vado con lui.
Ci ritroviamo entrambi invitati dall’estate.

*

Sera d’estate

Come un ramage d’oro,
Un corno di luce
Vi riposa assopito al riparo,
Forzando l’entrata delle scuderie, potremmo nel silenzio sentire
Il legno dorato frusciare
Mentre scricchiola
Il paesaggio si trova lì
Come latte appena munto
Con la schiuma immobile e luminosa delle colline

*

Autunno

Raccogliere le foglie nei parchi, che piacevole lavoro!
Vagare qua e là, e tornare lentamente
Come ritorna il tempo, come rientra la distanza
Nostalgico come i francobolli sulle buste

Ho trovato una lettera scritta solo a matita
Cancellata dalla pioggia, cancellata dalle alluvioni.
Oh tempo delle lettere dove sei dove sei
Come Rilke ho scritto lunghe lettere
a oggi mi taccio addio novembre è arrivato
I cavalli rossi escono attraverso i cancelli

*

Destino

La volontà assoluta di vivere senza rimorsi fa esplodere tutta l’eternità
La morte non esiste
dobbiamo sottometterci
Di tanto in tanto c’è il sì
sì, vogliamo che sia così
perché non possiamo scegliere il nulla assoluto

*

I luoghi

I luoghi che ci siamo lasciati alle spalle continuano a vivere.
Il cavallo scappa, il bambino grida, la madre apre la porta
“Non c’è, non c’è, quindi non so
che ne è stato di lui”. Stanno cercando.
Stanno cercando qualcosa, si muovono per la casa.
Stanno cercando i luoghi che abbiamo lasciato, i luoghi
dove una volta eravamo.
Corrono alla stazione e pensano: la casa.
La casa è rimasta.
Dove se ne vanno?
Al funerale della sorella. Per sempre. A casa del figlio.
La nonna rimane. la nonna, mon la porteranno con loro.
Lasciano a casa loro Mélusine a fischiettare.
L’orologio, non lo portano con loro
L’orologio suona in una stanza vuota.

*

Notte

L’intera caserma dorme ancora
I prigionieri appena rilasciati sono in esercitazione
Le tubature delle case rovinate dai bombardamenti son state a malapena riparate
Indossano i loro cappelli a cilindro
Gli abitanti morti hanno sorriso
Gli abitanti morti han fatto bei sogni

*

Menù

Se una donna mi invitasse a “salire” con lei
allora avrei una perfetta giornata felice
Ho meno sigarette che Domani
Ho meno sigarette che mani

Perhaps it is macaroni cheese
I’ll go for dinner
there is perhaps the drug called happiness

(traduzione di Andrea Giramundo)

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*FONTE : https://www.espritsnomades.net