È raro trovare, nella letteratura americana del Novecento, scrittori che si siano dedicati con la stessa passione alla narrativa e alla poesia. Per i miei percorsi di lettore, oltre a Grace Paley me ne vengono in mente un paio: Raymond Carver e Charles Bukowski. Benché diversissimi tra loro per temi, ambienti, stile proveniente culturale, questi scrittori un legame ce l’hanno perché erano tutti dei bravi scrittori di racconti, e il racconto condivide con la poesia la rapidità, l’immediatezza, e anche la natura di frammento o di illuminazione. A Carver in particolare Grace Paley è accomunata da una serie di coincidenze: negli anni Ottanta furono considerati il padre e la madre del nuovo racconto americano, grazie a tre raccolte diventate dei libri di culto. Poi per la gioia dei loro editori, che li esortavano ad allungare il racconto fini alla forma più popolare del romanzo, entrambi si dedicarono a quella più impopolare della poesia, con una tale fedeltà, fino agli ultimi giorni di vita, da farci pensare che si sentissero, dentro di sé, più poeti che narratori (e infatti Carver così volle essere ricordato, sulla sua tomba: Poeta, short Story Writer, Essayist). Con Bukowski, G.P. ha piuttosto in comune il carattere: l’esuberanza, l’anticonformismo, l’ironia, l’idea della scrittura come luogo di libertà, l’insofferenza a ogni tipo di autorità sulla pagina e nella vita, e anche l’orecchio che le permetteva di registrare la musica del mondo. Le piaceva definirsi una story-listener, ascoltatrice di storie: prima ascoltare e poi riferire, era la sua idea del lavoro di scrittore. E con ciò fare della scrittura un atto politico, perché riferire è un dar voce a chi non ce l’ha: agli ebrei, alle donne, ai bambini, ai migranti – ai dimenticati e agli sconfitti della guerra tra noi e il pianeta, che sono gli alberi e gli animali.
Ma agli alberi e agli animali G.P. sarebbe arrivata tardi, perché era nata a new York e per molto tempo fu la città il suo luogo di ascolto e di osservazione. Era l’ultima figlia di due ebrei ucraini perseguitati per motivi politici dalla Russia zarista nel 1905: un medico, sua moglie, più un fratello e una sorella maggiori e alcune zie che in casa avrebbero parlato sempre russo e yiddish, e inteso l’inglese come una lingua straniera faticosamente conquistata (“le d e le t fra i denti il fischio delle s”). Si chiamavano Gutzeit, ma in America il cognome cambiò in Goodside, e Grace Goodside nacque americana e newyorkese nel 1922. crebbe nel Bronx, un immenso quartiere popolare nell’epoca in cui l’immigrazione era ancora libera e a New York sbarcavano dall’Europa oltre mezzo milione di persone all’anno. Ebrei dell’Est, russi, slavi, polacchi, italiani, oltre ai portoricani e agli afroamericani, questa l’umanità che G.P abitava e che avrebbe abitato le sue storie. Fu politicamente impegnata fin da studentessa e in casa dovette imparare a far sentire la sua voce (“Va a dormire, tu e le tue idee comuniste”, le dice la madre in un racconto, lasciandoci intuire una divergenza tra loro sull’Unione Sovietica: i genitori pur socialisti conoscevano bene la Russia e avevano capito cosa fosse il comunismo di Stalin, lei da giovane rivoluzionaria americana si sarebbe illusa ancora per un po’). La perse presto, sua madre, e altrettanto presto di sposò, a vent’anni con un cineoperatore di nome Jess Paley che le diede il cognome e due figli, e con cui andò a vivere in un nuovo quartiere che sarebbe stato cruciale per la sua formazione politica e letteraria. Il Greenwich Village era già allora il cuore bohémien di Manhattan, subito dopo la guerra avrebbe visto passare la Beat Generation e un po’ più tardi il folk politico di Joan Baez e Bob Dylan, e poi ancora gli hippie e i punk. Avrebbe visto passare, un una parola, tutta la contro cultura americana della seconda metà del Novecento. Ma negli ultimi anni Cinquanta fu il teatro di una lotta piccola ed epocale per New York, quando un comitato spontaneo di cittadini, per la maggior parte donne, si oppose al progetto di sventrare il parchetto di Washington Square con un’autostrada urbana. La protesta durò per anni, riuscì a coinvolgere personalità importanti e a sollevare il tema dell’abitabilità e del verde, finché nel 1958, in questa città-cantiere che perennemente demolisce il suo passato e costruisce il suo futuro (e nel frattempo fa un sacco si soldi), per la prima volta la causa della conservazione l’ebbe vinta. G.P. di quel movimento faceva parte, così come tutti quelli che dal Greenwich Village partirono negli anni a venire: per i diritti civili, per la casa, contro la guerra in Vietnam e le armi nucleari, in difesa delle donne. Quando di separò dal marito continuò a crescere i figli da sola, anzi non sola, avrebbe detto lei, ma con le amiche, vicine, compagne, con le altre madri del quartiere, e questo prendersi cura una dell’altra, anche dei figli dell’altra, divenne l’essenza del suo femminismo. E così le storie della sua famiglia d’origine, che costituiscono il nucleo dei primi racconti (per questo Piccoli contrattempi del vivere, 1959, ha un posto nella tradizione della letteratura ebraica newyorkese), diventano con il tempo le storie delle amiche, dei loro amanti e figli, del loro quartiere e delle loro battaglie (Enormi cambiamenti all’ultimo minuto, 1974, e Quello stesso giorno, 1985: quarantaquattro racconti in tutto, l’intero corpus del suo lavoro di scrittrice dall’impegno politico, ma se sulla pagina era una compositrice raffinata, musicale, una jazzista della lingua inglese, per strada era una combattente che non si tirava indietro davanti alla violenza del potere: fu arrestata diverse volte durante i cortei di protesta ed ebbe un momento di gloria personale quando fece parte, nel 1978, degli Undici della Casa Bianca, un gruppetto di contestatori che lasciarono di soppiatto un tour guidato per stendere un striscione nel giardino del presidente. Andò in Vietnam, in Nicaragua, e in Unione Sovietica con missioni di solidarietà e di pace. Era schedata dall’FBI come comunista ma a questo punto le sue idee politiche si erano già evolute, se in un’intervista ebbe a definirsi “un’anarchica cooperativa e una pacifista battagliera”, oltre che, tra gli amici, una femminista innamorata degli uomini, che continuava a crearle un sacco di problemi. Di lavoro, ormai dagli anni Sessanta insegnava scrittura in college prestigiosi come la Columbia, la Syracuse University e il Sarah Lawrence College, e allevava giovani scrittori come A.M Holmes, che l’ha sempre ricordata come una maestra di vita. Aveva ottenuto premi e stima dall’ambiente letterario ma, a che li chiedeva come mai pubblicasse un libro ogni dieci anni, e come mai solo racconti, rispondeva che aveva troppo da fare, che non riusciva a chiudersi in una stanza e tenere fuori il rumore del mondo, che ogni volta il mondo la chiamava, e che “l’arte è lunga e la vita troppo breve”, un aforisma di Ippocrate che è bello immaginare avesse appreso dal padre. Dopo il terzo libro, che raccolto insieme ai primi due le avrebbe fruttato una candidatura al Pulitzer e al National Book Award, come ennesimo atto di rivolta – contro il successo magari?- smise di scrivere racconti e a sorpresa cominciò a dedicarsi alla poesia.
Altre cose erano cambiate, nella sua vita, e forse per capire i cambiamenti è meglio osservarli tutti insieme. A cinquant’anni si era innamorata di un poeta, architetto, commediografo di nome Robert Nichols, un compagno di lotte che sarebbe poi sempre rimasto il suo grande amore. Si sposarono nel 1972, andarono a vivere insieme nella casa dell’Undicesima Strada che conoscevano tutti – tra la Sesta Avenue, a pochi isolati da Washington Square, tutti sapevano dov’era perché spesso si trovava Grace lì davanti a volantinare – ma cominciarono anche a frequentare la casa di campagna di Nichols, nel Vermont, a cinque ore di macchina da New York verso il confine con il Canada. Ci passavano l’estate, all’inizio, e per Grace fu la scoperta di un paesaggio del tutto diverso da quello in cui era cresciuta: chissà com’era per la ragazza del Bronx, la giovane donna del Village, l’ascoltatrice abituata alla cagnara delle case popolari e al baccano dei locali fumosi e al frastuono delle strade di Manhattan, imparare ad ascoltare il fruscio del vento tra le foglie e il mormorio dei torrenti… Il passaggio dalla narrativa alla poesia avvenne, in lei, insieme a questo cambio di ambiente sonoro, come se per riprodurlo sentisse il bisogno di uno strumento nuovo. Il racconto per la città, la poesia per i boschi. New York per la giovinezza e il New England per la vecchiaia. Si affezionò moltissimo a questi luoghi, tanto che, a partire dagli anni Novanta, quello di Theford, Vermont divenne il suo indirizzo più o meno stabile (per un caso, o forse no, è stato per anni anche l’indirizzo di un’altra grande scrittrice di racconti, Annie Proulx). Non che con ciò l’impegno politico si fosse affievolito, anzi: la vita eni boschi lo alimentò e gli diede nuova linfa, ispirando un ambientalismo appassionato che è sempre andato d’accordo con l’anarchia. “L’adorato principe Kropotkin”, letto insieme a Robert Nichols in una di queste poesie, era il pensatore russo che per primo aveva elaborato, contro il concetto darwiniano della lotta per la sopravvivenza, quello del mutuo appoggio tra gli esseri viventi, e questo era il cuore dell’anarchismo di G.P., tutt’altro che individualista. Il sogno secondo cui a dettare il nostro vivere sulla terra potrebbe essere non la competizione ma la cooperazione, quella degli alveari, dei formicai, degli stormi di uccelli, dei boschi e dei sistemi evoluti con cui le piante si proteggono e si aiutano tra loro: che potessero farcela anche gli uomini e le donne era l’idea in cui G.P. fermamente credeva.
A quel punto si addentrava nell’ultima parte della sua vita e fu allora che scrisse la gran parte delle poesie di questo libro, tra i settanta e gli ottant’anni. Anche se a volte va indietro nel tempo fino a ricordare di quando, attraverso lei bambina, l’inglese aveva fatto irruzione della lingua della sua famiglia, o sogna sua madre che non c’è più oramai da mezzo secolo. Sono poesie sullo scorre delle stagioni, sui ricordi che l’autunno della vita porta con sé, sull’amore e l’amicizia tra i vecchi, sulla perdita delle persone amata, sull’approssimarsi della morte e l’eterna giovinezza del mondo. Ma ancora, come sempre, poesie sugli esseri umani, così imperfetti e pieni di bisogni, dolori, rabbia, desideri, e con la loro voce che protesta, implora, ride e risuona, la musica del mondo. Poesie di una donna appassionata, coraggiosa, combattiva, ironica, generosa, innamorata: Poet, Short Story Writer, Woman, Mother, Teacher, Friend.
*da VOLEVO SCRIVERE UN POESIA, INVECE HO FATTO UNA UNA TORTA (BIGSUR)