Il libro racconta Città del Messico negli ultimi anni ’40 vista con gli occhi di un bambino e la storia dell’amore di questo bambino, consapevole della logica impossibilità, ma pur innamorato, per la madre di un suo amico.
In realtà mi sembra che la storia, pur in linea con il pensiero di Pacheco che come dice Octavio Paz ” è impegnato a dimostrare che viviamo nel peggiore dei mondi possibili” rappresenti solo un pretesto proprio per raccontare la città, i suoi abitanti, la loro vita quando la cultura e i costumi del vicino ingombrante, i “norteamericanos”, hanno invaso in maniera dilagante e devastante la vita quotidiana dei messicani.
La cosa che più mi ha colpito in questo libro è la scrittura, la prosa di Pacheco che con poche parole sia perché il libro è di sole 79 pagine ma soprattutto perché a colpire è la bellezza del suo modo di scrivere, del suo uso delle parole, uso asciutto, quasi scarno ma tenero, a tratti lirico e comunque sempre musicalmente incisivo.
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