Il cielo, oscurato dalla polvere che si eleva dal porto, è torvo. Il sole ardente guarda il mare verdastro a traverso un tenue velo e non può riflettersi sull’acqua, rotta ad ogni istante dal tuffo dei remi, dalle eliche dei vapori, dalle chiglie taglienti delle feluche turche o delle barche a vela, che solcano in tutti i sensi l’angustissimo porto. E le onde del mare, costrette nel granito, schiacciate dal peso enorme che sopportano, si agitano contro le fiancate dei legni, si frangono alla banchina e si battono e mormorano, schiumanti sotto ogni colpo ; ma fatte ancora più torbide e sporche.
Lo strepito delle catene, il rullare dei carri che trasportano le mercanzie, il gemito metallico delle lastre di ferro sul selciato, i fischi dei legni a vapore, ora acuti, ora stridenti ; le grida dei facchini, dei marinai e dei doganieri – tutti questi suoni si fondono in un sol motivo, quello del lavoro, e vibrano e si indugiano nell’aria come se temessero di salire e svanire. E dalla terra, sempre nuovi rumori, che, cupamente rimbombanti, fan tutto rimbalzare, o acutamente stridenti squarciano l’aria ardente e polverosa.
Il granito, il ferro, il legno, i vascelli, le persone, tutto respira un inno furioso e appassionato al dio del Traffico. Ma le voci degli uomini, appena distinte, sembrano deboli e ridicole, come lo sono egualmente gli uomini, cagione di tutto quel rimescolio.
Coperti di cenci, sporchi, curvi sotto i loro fardelli, si agitano in turbini di polvere, in un’atmosfera ardente e rumorosa, e sono infimi, piccini, in confronto dei colossi di ferro che li circondano, delle montagne di mercanzie, dei carri ferroviari rumorosi e di tutte quelle cose che hanno essi stessi create. La loro opera li ha assoggettati e spogliati della loro personalità.
I vapori giganteschi, all’ancora, fischiano o gemono profondamente ed in ogni suono che producono vi è come un beffardo dispregio di quegli uomini, che si arrampicano sui loro ponti ed empiono i loro fianchi dei prodotti d’un lavoro di schiavi. Le interminabili file degli scaricanti sono lugubremente ridicole ; trasportano sulle loro spalle immensi carichi di grano, che depositano nel ventre di ferro dei legni per guadagnare poche libbre di pane pei loro stomaci d’affamati. Gli uomini, laceri, sudati, abbrutiti dalla fatica, dal frastuono e dal calore ; le macchine lucenti, possenti ed impassibili, costruite dalle mani di quegli stessi uomini, quelle macchine mosse pertanto non dal vapore, ma dai muscoli e dal sangue dei loro creatori… ironia fredda e crudele !
Il rumore snerva, la polvere irrita le narici e gli occhi, il caldo brucia il corpo e lo stanca, e tutto, intorno intorno, sembra teso, maturo, impaziente, pronto a scoppiare in una grandiosa catastrofe, dopo di che l’aria ridiventerà respirabile e leggera, la terra si calmerà di tutto quel rumore irritante, di quel melanconico ammattire… e la città, il mare, il cielo saranno tranquilli, poi benefici. Ma questa non è che un’illusione, tenuta viva dall’instancabile speranza dell’uomo e dal suo imperituro ed illogico desiderio di libertà.
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- DA “I Vagabondi” di Maksim Gorki