L’ORECCHIO DI VAN GOGH
Essere creativi non vuol dire altro che saper guardare la realtà che ci circonda con un occhio particolare. Ascoltare quello che la vita ha da dirci, con un orecchio attento.
Essere creativi… essere creativi non vuol dire niente!
Da dieci giorni piove a dirotto, e senza poter uscire di casa lo scrittore non riesce a scrivere più di due frasi che siano due. Da quando il diluvio è cominciato, ogni giorno, il nostro scrittore si siede puntuale al mattino davanti al computer. Apre la pagina Word e rilegge ‘Essere creativi non vuol dire altro…’, arriva a ‘…orecchio attento’, e non riesce mai a continuare il racconto. Scrive qualche parola. La cancella. Ne scrive altre, poi cancella anche queste. E il racconto rimane fermo sempre allo stesso punto. A niente gli serve leggere le notizie di cronaca dal suo tablet: per trovare uno spunto avrebbe bisogno di una realtà che sia almeno verosimile. Prende a caso un libro dalla libreria, ne legge qualche riga: ma non vuole copiare, vuole scrivere qualcosa di originale. Niente, da nessuna parte trova l’ispirazione. Dove diavolo volgere questo occhio particolare? Cosa se ne fa di un orecchio attento se da ascoltare non c’è altro che il rumore della pioggia?
Si guarda intorno, ma non vede niente. Fuori dalla finestra è solo la pioggia. Ma sì, certo: la finestra! Come dicevano quelli dell’OuLiPo… è imponendosi dei limiti che si stimola l’immaginazione. È racchiudendo l’infinito caos della realtà all’interno del rettangolo della finestra che si può concentrare lo sguardo su un particolare, che ci porti poi a spaziare ovunque. Una scrittura vincolata allo spazio della finestra, dove trovare uno spunto che ci porti a creare un qualcosa di originale.
Le macchine, gli autobus, le persone che passano sapranno sicuramente dargli qualcosa su cui scrivere. Con tutta quest’acqua le persone che passano non saranno poi tante, ma qualcuno ci deve pur essere. Le persone alla fermata del bus. Vuoi che nel loro combattere con la pioggia e il vento non riescano a dirmi qualcosa di loro, qualcosa di me?
Si alza dal tavolo, va in cucina e si prepara un caffè. La finestra della cucina è quella con la migliore visuale: vede la fermata del 33 senza neanche bisogno di sporgersi. Anzi, da qui riesce a guardare giù in strada anche da seduto. Prende una delle due sedie del tavolo e l’avvicina al vetro. La tazza di caffè, tabacco cartine e accendino, e si siede. Fa per bere il caffè ma ritira subito le labbra: è bollente. Appoggia la tazza ai suoi piedi. Si gira una sigaretta. Lecca la cartina per chiuderla mentre getta un occhio di sotto. Un serpentone infinito di macchine occupa tutto il fiume d’asfalto. Per una volta sua sorella ha avuto ragione: senza doppi vetri, adesso starebbe impazzendo. Anche se attutito come fosse sott’acqua sente comunque un inferno di clacson. Bastano due gocce d’acqua e la gente impazzisce. Alcuni riesce a distinguerli chiaramente all’interno dei loro abitacoli. Sfogarsi con una tale ira sul clacson, che se invece di un volante avessero di fronte una persona si potrebbe tranquillamente parlare di furia omicida.
Come si fa a essere così infelici?
Decine, centinaia di migliaia di persone (milioni?) che passano così ogni giorno, chiusi in macchina dalle due alle tre ore, per andare o tornare dal lavoro, e che impazziscono per due secondi persi al semaforo.
Il loro malessere gli arriva diretto dalla finestra come il fumo della sigaretta che sta fumando.
Con una mano a cucchiaio sotto l’altra che tiene la sigaretta si alza per andare a prendere il posacenere che ha dimenticato. Nel farlo urta la tazza e rovescia il caffè. Schizzi di caffè macchiano il muro bianco. Si scotta il piede nudo che ritira di scatto, lascia la presa sulla sigaretta che vede precipitare nella pozza nera, e fa cadere la sedia dietro di sé. Ma porca…!
Mentre va a prendere uno strofinaccio saltellando sul piede rimasto asciutto per non sporcare dappertutto, decide che il clacson è decisamente il suono più odioso al mondo. È incredibile quanto riesca a innervosirlo, anche il solo sentirlo dall’alto del suo terzo piano. Continua a imprecare mentre in ginocchio passa lo straccio per terra: Queste macchine maledette! Questi maledetti clacson! Maledetti tutti… Si vede al volante di una macchina fermo al semaforo, che non fa in tempo a diventare verde e già quello dietro sta suonando, tenendo premuto il clacson come un pazzo. Lo inquadra nello specchietto: un vecchio con un cappello in testa, con le due braccia tese a tutta forza che spingono sul volante mentre impreca, come in preda a spasmi, guardandolo fisso negli occhi: L’urlo di Munch che furioso gli strilla contro. Lo scrittore tira deciso il freno a mano. Da sotto il sedile tira fuori una chiave inglese gigante, da camion. Scende di scatto, e in due passi arriva alla macchina dietro. Il vecchietto ha cambiato espressione, non è più indemoniato: adesso è terrorizzato. Muto nel suo abitacolo, veloce chiude la sicura della portiera. Con un grido atroce lo scrittore gli sfonda il parabrezza. Poi il finestrino. Il vecchietto cerca di ritrarsi il più possibile all’interno della sua auto, ma la cintura lo blocca e non può evitare la chiave inglese che inizia a colpirlo ovunque. Prima a casaccio, sul petto, poi in testa, lo scrittore colpisce ovunque, sempre più forte. Colpisce e grida, ogni colpo un grido, colpisce e grida. Lo batte come fosse un tappeto, finché del vecchio non rimane che il cappello inzuppato in una pozza nera, sangue ovunque… lo scrittore strizza lo strofinaccio nel lavandino, e lo lascia lì.
Meglio tornare a concentrarsi sulle persone alla fermata. Torna alla finestra. Mentre tasta il pavimento ancora umido sotto i suoi piedi, si siede. Alla fermata non c’è nessuno. Si gira un’altra sigaretta, ma per tutto il tempo che ci impiega a fumarla non arriva nessuno. Va bene che c’è il diluvio, ma nessuno… Possibile? Certo: lo sciopero! Lo ha letto prima sul giornale. Ma puoi scioperare con questo tempo, per il secondo venerdì di fila? Sì, possono, lo stanno facendo. Sente il suo odio spostarsi dai suonatori di clacson verso gli scioperanti dei mezzi pubblici. Eppure, da giovane, il nostro scrittore, orgogliosamente si definiva comunista: possibile che adesso provi rabbia verso chi manifesta per i propri diritti? Che invecchiando sia diventato quel borghese che tanto da giovane odiava? O forse, più che lui, a cambiare siano stati gli scioperi?
Niente! Anche oggi non scriverò niente! Dalla finestra solo nervosismo. Meglio lasciar perdere. Si guarda intorno, mentre pensa a cosa potrebbe fare per non rimanere anche oggi tutto il giorno a rimuginare davanti a quell’inizio di racconto. Si alza e torna nel suo studio. Si siede alla scrivania. Guarda lo schermo. Di scatto chiude il portatile. Si guarda in giro. Si alza e inizia a camminare in tondo per la stanza. Nel poster appeso alla parete dietro il divano, Van Gogh lo guarda severo dal suo autoritratto.
Ma dove la trovava Van Gogh l’ispirazione? Ogni giorno a disegnare. Magari sempre lo stesso quadro. Girasoli su girasoli. Piuttosto non mangiava, ma ogni giorno disegnava. Cosa sussurrava all’orecchio di quell’uomo, la realtà che vedeva, per farlo un giorno diventare Van Gogh. Girasoli su girasoli… e poi? Certo, a furia di dipingere è diventato pazzo. Van Gogh era un genio, sì, ma era anche pazzo. Forse era pazzo perché era un genio? O era un genio, perché era pazzo? Alla fine quell’orecchio Van Gogh se l’è tagliato.
Ma certo! L’orecchio di Van Gogh!
Si volta dal poster e quasi salta verso la scrivania. Con un calcio allontana la sedia. Va diretto verso il primo cassetto. Lo apre. Vi cerca qualcosa. Ma non lo trova. Cerca con un’incredibile foga. Ne tira fuori tutto ciò che contiene, in aria, dietro le spalle, ovunque. Finché non tira fuori anche il cassetto oramai vuoto, e lo lascia cadere per terra. Apre il secondo cassetto e con ancora più foga si piega per cercare. Sembra volerci entrare in quel cassetto. Lo trova. Finalmente trova quello che sta cercando. Si ferma a guardare. Uno strano sorriso gli compare sul volto. Si tira su con la schiena. Non distoglie lo sguardo nemmeno per un secondo, sembra abbia avuto una visione. Come per sistemarsi dopo una corsa, rallenta il respiro. Un profondo respiro, un altro. Si sistema la camicia, il colletto. I capelli. Con una mano si aggiusta il ciuffo. Sui lati, dietro la nuca. Mentre si massaggia il collo, il sorriso diventa una risata. Un risata diabolica. Rapido e deciso come afferrando un animale che potrebbe sfuggirli, con due dita si afferra il lobo dell’orecchio sinistro. Dal cassetto tira fuori un enorme paio di forbici, e… ZAC!