Ma più forte dell’amore per i grandi morti era in me il disprezzo per i piccoli vivi. GIOVANNI PAPINI


Ma più forte dell’amore per i grandi morti era in me il disprezzo per i piccoli vivi. Per tutti quanti: per quelli che conoscevo e per quelli che non avevo veduti mai; per quelli che mi biasimavano e per quelli che mi acclamavano; per chi mi veniva incontro e per chi mi sfuggiva.
Nessun uomo – tolti tre o quattro compagni di odii e avventure – ritenevo miei pari. Nessuno mi sembrava degno di giudicarmi e neanche di starmi accosto. Credevo sul serio di esser l’unico spirito senza pregiudizi e paraocchi; senza falsità, sciocchezze e bestialità in testa; il solo capace di sbandire gli inganni e di butta giù gli usurpatori; di spopolare l’interno walhalla dei vecchi dei e degli idioti moderni; di spogliare ogni cosa, ogni idea, dei ruffianeschi veli dell’abitudine, e della convenzione; di liberare l’umanità da tutte le obbrobriose servitù mentali che la impastoiano. Volevo liberare (cioè, secondo l’idea mia, aiutare) quelli stessi che disprezzavo e li disprezzavo appunto perché non eran liberi e appunto perché erano spregevoli volevo liberarli. Volevo renderli degni di me, del mio tipo ideale di umanità tutta libera, tutto spirito, tutta affrancata d’ogni fede. Come selvaggio maestro non cercavo di affascinare con musiche o dolcezze ma volevo svegliarli, scuoterli, eccitarli. In quel tempo avrei potuto prender per motto della mia vita il verso del Petrarca:
Io venni sol per isvegliare altrui.
Ma non volevo svegliarli con le buone o con le carezze: bensì squassandoli e pigliandoli per il petto e sbattendoli contro il muro perché dall’ira e dalla vergogna di quel rude risveglio venisse fuori uno scatto di energia, una smossa sdegnosa di virilità. Mi comportavo cogli uomini come i domatori colle belve mezze istupidite e assonnate dei serragli. Li pungevo, li bruciavo e li frustavo: li pungevo coi più feroci sarcasmi che io sapessi trovare; li bruciavo colle parole dure e spiacenti e colle accuse spietatamente sincere; li frustavo mostrando loro quant’eran vigliacchi nella vita, umili nei desideri, primitivi nelle idee, ignoranti in ogni cosa, assolutamente incapaci di capire a fondo e di ragionare diritti. (…)
Mi feci così in breve tempo una fama terribile e di strafottente che mi piaceva; fui guardato come un pazzo villano e come l’apostolo della franchezza: come un mascalzone da sfuggire e come un eroe della sincerità. Molti, i più vili, si scostarono da me come da un appestato; alcuni, più degni, mi cercarono, resistettero e forzarono la mia amicizia. Giacché codesto mio modo di fare non era soltanto uno sfogo necessario dei miei istinti briganteschi e guerreschi e un resultato naturale della mia sterminata superbia ma anche un metodo per saggiare gli uomini, un vaglio per scegliere i migliori e i più forti. Chi si aveva a male delle mie parole se ne andava ed era quel che volevo perché ho sempre sentito più bisogno di nemici che di amici. Parecchi mi stimavan di più; erano attratti dalla mia stessa violenza; sopportavano volentieri le strapazzate e gli insulti perché sentivano che molto spesso dicevo il vero, e che il vero detto così crudamente poteva giovare assai più alle anime altrui che ai miei propri interessi. Alcuni amici me li sono proprio conquistati a furia di legnate e di male parole. Codesti pochi, più acuti degli altri, s’accorgevan di tutto l’amore che era sotto il mio disprezzo e indovinavano che sotto la mia gognesca armatura di assalitore c’era un povero poeta sentimentale capace di amicizia assai più dei garbati giovinotti per bene. (…)
Volevo costringere gli altri a riflettere, a pensare, a riesaminare sé stessi, la propria anima, il loro futuro, i loro ideali; volevo ricacciare ognuno dentro sé, là dove non si scende volentieri; e metter ciascuno faccia a faccia con sé medesimo, per ravvedersi, per prender altra via, per accelerare il passo, per non dimenticare – se ancora in tempo. Molti hanno dovuto a me un risveglio di coscienza, una crisi di abbattimento che li ha rifatti uomini e li ha rimessi sulla strada con forza nuova. Fra questi eterni e pigri dormenti che sono gli uomini è pur necessario che qualcuno abbia il coraggio di gettare il chi va là della scolta, di sonar la diana prima del solito mattino, e dar qualche cenciata ai rossetti che impiastricciano i volti, perché ognuno veda con spavento la sua bruttezza e vecchiezza. Chi non ha la forza di guardarsi in viso si trucchi di nuovo e reciti pure la parte del galantuomo anche se è una canaglia e la parte del genio se pure è uno sciocco. Non mi importa: il mio dovere l’ho fatto! (…)
Non si rifanno gli uomini coi cerotti e l’omeopatia. Ci vogliono cure radicali e feroci. Bisogna tagliare dove c’è il marcio; e portar fuori dal soffice nido delle abitudini chi non conosce la fresca furia del vento e la salutare gelidità della neve se non traverso i vetri di casa sua. E se l’aria vi mozza il respiro e vi soffoca, tanto peggio per voi e tanto meglio per i becchini.
Io non mi pento di essere stato troppo franco e attaccabrighe.
Non so giovare che tormentando, non posso amare che disprezzando.

——-> ALTRO DI: Giovanni Papini