Ma verrà un giorno, vedrai, che tu stesso, di certi timori, farai oggetto di risa. ANNA MARIA ORTESE (da L’Iguana)

Ma verrà un giorno, vedrai, che tu stesso, di certi timori, farai oggetto di risa.
ANNA MARIA ORTESE (da L’Iguana)

Disse dunque il marchese che, a parer suo, pur prendendo atto delle diverse strutture economiche che dividono i due paesi, uno ponendo, per così dire, in primo piano, e l’altro alquanto più indietro; disse dunque che non da questo – e poteva sbagliare, ma non se lo augurava – dipendeva il ritardo, in Portogallo, di un risveglio artistico-letterario (e quindi editoriale); sibbene alla presenza, nell’animo portoghese, e pur entro tanto sonno, di una coscienza assai dolorosa del dualismo che sta alla base del Creato; e dalla certezza che, crescendo il bene, così pure crescerà il male; e che questi, più forte del primo, si vale di ogni opera, azione, progresso del bene per accendere il suo fuoco, com’è possibile vedere (disse) dalle attuali condizioni dei popoli. In altri termini, essendo qualsiasi bene incentivo al male, incoraggiamento per questi a mettere fuori la sua spaventosa testina, appariva somma pietà astenersi da qualsiasi bene, acciocché la vita nel suo complesso di bene e di male poco alla volta deperisse, e scioltosi alfine il nodo vitale, chi o coloro avevano fatto il primo errore, avvedutisi, cambiassero sistema, ricostruendo un mondo privo affatto di male. Questo dimostrandosi il vero fine della cultura – l’arenamento della vita, e la divulgazione del principio che la vita va rifatta attraverso un ritorno al vuoti primigenio – era evidente che la via più giusta, il vero compito di ogni gentiluomo o poetico genio, stava nel ridurre al minimo, o almeno tener celato, il proprio respiro, al fine di non soffiare sul fuoco di un Creato malizioso e stipato come un uovo di delitto e d’inganni (disse) irriferibili.

Mentre queste parole diceva il marchese, con l’aria di guidare, attraverso una premessa tra scherzosa e folle, o un mistico paradosso, il discorso al punto in cui poteva gettarsi poi, francamente, in un terreno più reale, qualcosa, nei suoi occhi, diceva che quella concezione del mondo, e quel terrore del male, erano per lui cosa più seria di quanto il suo garbo manifestasse; e che anche in questo momento, come forse da anni, al solo evocarli, si erano trascinati dietro di lui, e lo atterrivano come fantasime dispettose usano con inermi fanciulli. Egli arrossì in modo cupo, poi quel colore fuggì dal suo volto e rimase nei suoi occhi non so che atroce fissità di pietra. Ed era penoso notare quanto, in quell’abbattuta disperazione, egli fosse solo (…)

Perdonami, Ilario, disse a questo punto il conte, come ritornando in sé da non so che breve o profondo viaggio, ma a questo punto, se non sbaglio, tu negheresti allo svolgersi del Creato, anzi alla sua stessa gestazione, una qualunque finalità amorosa?

Non esattamente, rispose il marchese, ma direi che Dio, o ciò che chiamiamo Dio, non è la sola origine delle cose, le quali, come vediamo dalla natura medesima, sembrano, in ogni caso, la risultante infelice di due elementi combinatisi: uno attivo, uno passivo, o se vuoi, uno positivo e l’altro negativo…

In questo, non scorgo alcun male.

Non scorgi del male in ciò che frena la vita, l’aspirazione sublime a identificarsi con l’Eccelso, e riduce l’esistenza a una trappola per topi?

No, a parer mio, disse il conte, se proprio questo male permette alla cara vita di rivelarsi. Vi è evidentemente, ammise con calma, un che di strano in tutta questa architettura che ci circonda, e che non smette mai di espandersi, un quanto, fra l’altro, non scorgi alcune fondamenta…ma null’altro. Credimi, caro, questa costruzione è bontà grandissima, e il dolore che vi vedi sparso è pura conseguenza del costruire…

Allora, sono io che sogno! Fece con amara ironia don Ilario. Io solo ho sognato che il male esiste, ci opprime!; e soggiunse, con una bizzarra espressione sul volto, mista di spavento e di rabbia: Scusami, ma ho l’impressione che qui faccia un caldo orribile… e anche freddo, in verità, e si allentò, con mani tremanti, il collo della camicia.

Porqué o tempo està mutando. Commentò, con aria scherzosa, Hipolito.

Il conte, commosso dalle sofferenze del giovanetto, ma più ancora da quei discorsi, che sempre lo avevano interessato, e che a Milano non si potevano più fare, sul bene e sul male e sul significato dell’Universo, allungò una mano a prendere e stringere quella gelata del marchese, e:

Carissimo, questi discorsi non sono affatto inutili, e anzi ti ringrazio di avermi stimato degno di ascoltarli. Ma verrà un giorno, vedrai, che tu stesso, di certi timori, farai oggetto di risa; e ciò sarà quando, uscito in qualche modo da tanta solitudine, avrai constatato che il mondo, quando non è malato, è buono, e se non lo è, essendo soltanto malato, ha bisogno, per guarire, di tutto il nostro intelligente amore.

La mano ch’era nella sua, a queste parole, si abbandonò un attimo, con una sfiducia che sconvolse il visitatore, mentre quegli occhi lo fissavano con l’incanto con cui il neonato vede arrivare la madre sua, che credeva perduta, e trema tra riso e pianto.

Fosse così! mormorò, fosse come tu dici, che il male non esiste!

Non personalizzato, per lo meno, non intenzionale; ma solo come un momento del divenire, il momento, per così dire, pratico.

——-> ALTRO DI: Anna Maria Cortese