NERONE – se fosse Premier oggi non cambierebbe molto..



Ripropongo di seguito il passaggio preso dal libro ‘IL MARCHIO DEL DIAVOLO’ di Glenn Cooper, che parla dell’incendio di Roma all’epoca di Nerone, descrivendo anche la società del tempo.
Bene una volta letto, provate a sostituire mentalmente i personaggi, le figure più importanti della storia, i protagonisti con nomi di persone del nostro contemporaneo…immaginate un Nerone vizioso in una grande villa che suona, intrattenendo gli ospiti, mentre Roma brucia e con lei tutti le persone non invitate alla festa, la descrizione degli usi e della vita del quotidiano dell’epoca, e paragonate il tutto ai vostri anni con i politici e i centri commerciali…
provate ora a rileggerlo…
…il progresso…
Era la metà di luglio.
Molte famiglie aristocratiche erano fuggite dal caldo soffocante della capitale per ritirarsi nelle ville che si trovavano in zone più fresche, lungo il litorale o tra le colline circondate da pinete. Un milione di persone meno fortunate erano rimaste in città. Dalle centinaia di focolari si era levava un fumo acre e un sottile strato di cenere nera si posava sui tetti e sull’acciottolato come una sorte di innaturale neve estiva.
Ogni cosa era riarsa: le gole degli uomini, il terreno sabbioso, le travi di legno crepato dei vecchi edifici. L’acqua, la linfa di Roma, non fu mai di così vitale importanza come in quel periodo di siccità.
Migliaia di liberti e schiavi lavoravano senza sosta per tenere le cisterne e i lunghissimi condotti in perfetto ordine. Cento edifici pubblici, cinquecento tra bacini e terme e decine di fontane monumentali avrebbero dovuto ricevere acqua corrente per tutto il giorno, ma da settimane le condutture erano secche. L’acqua fluiva solo goccia a goccia.
I Vigiles della città, addetti allo spegnimento degli incendi, erano consapevoli dei pericoli che correvano. Divisi in 7 coorti, composte da mille uomini ciascuna, dormivano di giorno, mentre di notte perlustravano le strade troppo strette e buie della capitale per controllare che le abitazioni non prendessero fuoco.
Le uniche armi a disposizione erano i secchi di bronzo e di pelle conciata che si passavano in catene umane dal bacino più vicino o, in caso, direttamente dal Tevere. Ma, in quella stagione, il livello dell’acqua era troppo basso per potervi attingere e i Vigiles sapevano perché. Non si trattava solo della siccità.
Era colpa degli speculatori che sabotavano le condutture, e il funzionario preposto alla loro cura, un parente stretto del prefetto Tigellino, diventava sempre più ricco.
Quattordici giorni prima, mentre era in partenza per Anzio, Nerone aveva ordinato al cognato di Tigellino di svuotare le cisterne. In una notte, il funzionario e i suoi collaboratori avevano spedito bande di uomini prezzolati a deviare gli acquedotti. Così, l’acqua fresca era stata convogliata verso le ville dei lemuri.
Ai Vigiles non era permesso che guardare Roma trasformarsi in un ammasso di legno da ardere. Erano passati ventotto anni dall’ultimo grande incendio.
Luglio era il mese delle feste: la stagione delle corse con le bighe era in pieno svolgimento. Niente distraeva il popolo dai fastidi dal caldo e dall’umidità come un giorno passato al Circo Massimo.
Fino a duecentomila romani gremivano gli spalti per sostenere una delle loro squadre – la Blu, La Rossa, la Verde o la Bianca – ognuna controllata da una corporazione.
Sotto gli spalti, sovrapposti su più livelli, brulicavano le botteghe che vendevano cibi caldi e vino.
Quella notte c’era la luna piena ma, poiché era nuvoloso, le migliaia di persone in fila davanti ai cancelli del Circo Massimo aspettavano l’alba nell’oscurità più completa.
Sopra il forno,dove era stato appiccato il fuoco secondo la storia, all’interno del Circo Massimo, c’era una bottega che vendeva lampade a olio ed era piena di anfore: i pesanti recipienti di argilla scoppiarono per il caldo che saliva dal pavimento e quella parte di Circo esplose in una palla di fuoco.
La folla fu presa dal panico e cominciò a correre in tutte le direzioni. Mentre le fiamme si alzavano verso il cielo, le campane della vicina postazione dei Vigiles della IX regio iniziarono a suonare all’impazzata.
Una coorte di Vigiles arrivò sul posto, ma le squadre armate di secchi finirono presto la poca acqua che avevano a disposizione.
Nel corso degli anni le abitazioni circostanti erano state rialzate di vari piani e i lavori condotti con così poca cura che, di fatto, gli edifici si tenevano in piedi appoggiandosi l’uno all’altro.
Poi, sospinto dal vento, il fuoco si propagò verso la XII e XII Regio, quindi superò il tratto delle Mura Serviane che, prima dell’espansione incontrollata di Roma, avevano segnato il confine meridionale della città.
Mentre il rogo divorava i caseggiati e dilagava sui tetti, le strade si riempivano di gente spaventata e impotente. L’uno dopo l’altro, i vicoli furono avvolti dalle fiamme: un gran numero di uomini, di donne e bambini rimase intrappolato in quei budelli tortuosi. Ci furono moltissime testimonianze di gesta coraggiose – persone che aiutavano gli altri a fuggire e che lottavano contro il fuoco -, tuttavia ben presto si sparse la voce che alcune figure misteriose si aggiravano per la città, lanciando tizzoni ardenti negli edifici non ancora raggiunti dalle fiamme.
Alle prime luci del mattino, mentre una densa cappa di fumo copriva la parte meridionale della città,
l’incendio divampò sull’Aventino, verso le eleganti dimore patrizie e i templi. Poi il vento cambiò direzione e cominciò a spingere il fuoco più a settentrione, minacciando le pendici meridionali del Palatino e del Celio. Il destino di Roma era segnato.
Un contingente di pretoriani arrivò ad Anzio proprio mentre il sole stava tramontando. Nerone aveva fatto costruire un nuovo porto e aveva trasformato la città in una colonia protetta per pretoriani e centurioni veterani. Aveva fatto ricostruire i palazzo sul mare che era appartenuto ad Augusto, aggiungendovi un grande colonnato che si estendeva per duemila passi. Aveva fatto anche erigere giardini, piscine e sopratutto un teatro, dove poteva dare sfogo al suo estro artistico.
Quando gli venne riferito dell’incendio, Tigellino non tradì la minima emozione e proibì al messaggero, che doveva consegnare un dispaccio riservato del prefetto di Roma, d’incontrare l’imperatore.
Nerone era dietro le quinte del teatro e si stava preparando ad entrare in sena nell’ambito di una rappresentazione drammatica. Con indosso una tunica in stile greco, senza cintura, si mescolò ai concorrenti, tutti giovani del posto che sapevano con certezza che l’imperatore sarebbe stato il preferito dai giudici. Quando fu il suo turno, Nerone salì sul palcoscenico e osservò gli spettatori pronti ad adularlo: veterani, senatori del suo seguito, magistrati locali ed una coorte di truppe speciali, le sue guardie del corpo germaniche. Anche se Anzio era ad una certa distanza da Roma, nell’aria si sentiva odore di bruciato e la notizia dell’incendio stava dilagando.
Il pubblico bisbigliava irrequieto e, se non ci fosse stata l’esibizione dell’imperatore, sarebbe andato subito in cerca di informazioni.
Sfiorando dolcemente le corde della Lira, Nerone intonò una canzone. S’intitolava ‘il saccheggio di Ilio’ e narrava la distruzione di Troia per mano dei greci durante la guerra celebrata nell’Iliade.
Avrebbe sicuramente vinto la competizione, anche se sembrava che nessuno si stesse divertendo ad ascoltare la storia di una grande città devastata da un incendio.
Nei quartieri poveri dell’Esquilino, i tizzoni ardenti che cadevano sui tetti e sulle terrazze erano subito spenti da cittadini e da schiavi prima che potessero appiccare il fuoco.
L’apostolo Pietro si trovava lì in qualità di vescovo di Roma, per una missione pastorale.
Aveva viaggiato per mesi interi a dorso di mulo, così da raggiungere Gerusalemme e Roma da Antiochia, l’altra città di cui era vescovo. A Roma i problemi erano seri: i discepoli stavano convertendo più schiavi e liberti che potevano, ma i cittadini erano ostili al culto cristiano, come veniva chiamata la loro religione. Il gregge era piccolo e, come succedeva con gli agnelli, di tanto in tanto il pastore doveva ricorrere al bastone.
Il tintore Cornelio era responsabile della nuova Chiesa e la sua casa era una dei luoghi dove i cristiani si riunivano per pregare.
La stanza era gremita di devoti. Pietro era accanto a una finestra. A un trato, entrò un tizzone portato dal vento. Per un istante, Pietro lo seguì con lo sguardo, poi ritornò a concentrarsi sul papiro che aveva in mano.
Aveva di recente scritto un epistola ai fedeli e voleva che l’ascoltassero direttamente dalle sue labbra.
< Fratelli, cercate di rendere sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai. Così infatti vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. Perciò penso di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e stiate saldi nella verità che possedete. Io credo giusto, finché sono in questa tenda del corpo, di tenervi desti con le mie esortazioni.
E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose.
Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza… >
Un altro tizzone entrò dalla finestra. < Accadrà presto. Roma è consumata dal fuoco e ho paura che Nerone troverò presto un capro espiatorio.>
< si, verranno a cercarci, anche se qualcuno sostiene che è stata tutta colpa dei Lemuri. >

< sai Cornelio, loro si ostinano a non capire che, se ci uccidono, ci rendono più forti. Vieni amico mio cerchiamo di aiutare i nostri fratelli. E, se intorno a noi c’è il male, affrontiamolo insieme.>
la Domus Transitoria era un grande edificio circondato da un colonnato che andava dal Palatino fino agli Orti di Mecenate, occupando gran parte del colle Esquilino nella III Regio. Però il progetto che stava davvero a cuore a Nerone era la costruzione della Domus Aurea, un palazzo così grande e magnifico che avrebbe messo in ombra tutti gli altri edifici di Roma. Era stato lui in persona ad aver approvato i piani e i disegni. L’edificio avrebbe occupato quattrocento iugeri di terra ai piedi del Palatino. L’ingresso principale sarebbe stato abbastanza grande da accogliere una statua alta 90 cubiti. Ovviamente la statua avrebbe raffigurato lui stesso: un vero e proprio colosso di Roma. La residenza, che Nerone aveva soprannominato Millaria, avrebbe fiancheggiato il foro, passando per i quartieri delle Carene e della Suburra, oramai devastati dall’incendio. Ci sarebbe stata anche un’enorme piscina, una specie di mare al centro di roma, che lui avrebbe usato per organizzare feste sontuose.
< sono sicuro che il terreno che ti occorre per La Domus Aurea è già stato bruciato. Se i venti rimarranno a nostro favore, la Domus Transitoria sarà al sicuro. Anche io sono preoccupato per le mie botteghe nella Basilica Emilia.>.
Nerone non era il tipo che provava simpatia verso gli altri. Aveva fatto di Tigellino il secondo uomo più potente di Roma, rendendolo immensamente ricco.
< se perdi la tua preziosa basilica, ne ricostruirai una più grande con botteghe più piccole e ne aumenterai l’affitto. Useremo le cave di marmo, la malta e il legno dei Lemuri per i nostri nuovi edifici. Daremo il terreno migliore ai nostri amici. Pretenderemo tasse per ogni transazione. Ci arricchiremo grazie alla sofferenza e i morti. Cosa ne pensi? A ogni modo, stiamo già facendo circolare la notizia che dietro tutto questo c’è la mano del culto cristiano ?>
< Certo. >
La città bruciava da 5 giorni, quando l’imperatore decise di intervenire. Coordinò le operazioni per domare il fuoco, ordinò di allestire ripari di fortuna per la popolazione sfollata nel Campo Marzio e di portare ulteriori scorte di grano ad Ostia. Eppure, nonostante tutte quelle iniziative, erano sempre più insistenti le voci che attribuivano a Nerone e al seguito la responsabilità dell’incendio. E il risentimento verso di lui, che aveva aspettato tanto tempo prima di rientrare a Roma, cresceva.
Nerone commentò le insinuazioni sul suo conto con una frase sibillina < Combattete il fuoco con il fuoco >.
A ogni pretoriano e capo dei Vigiles fu quindi ordinato d’informare la popolazione che i colpevoli dell’incendio erano i cristiani: era la loro vendetta per la crocefissione del loro Cristo. Poco dopo, la città fu setacciata e i cristiani vennero trascinati fuori dalle loro case o dalle botteghe che non erano state distrutte dalle fiamme, per essere poi uccisi sul posto.
Il mattino dopo, i venti si placarono e l’incendio rallentò, ma a Nerone giunse una pessima notizia: la Domus Transitoria era oramai completamente distrutta, mentre la Basilica Emilia, gioia e orgoglio di Tigellino, era sopravvissuta a quell’inferno, salvo qualche danno alla facciata di marmo. Gli fu anche detto che Tigellino si era vantato della sua buona sorte.
Nerone non poteva certo sopportare un affronto simile. Incaricò Balbillio di fare giustizia e, quella sera stessa, scoppiò un incendio in una bottega di tessuti situata al piano inferiore dell’edificio di Tigellino.
Quando si seppe che anche la basilica Emilia stava bruciando, alcuni membri della comunità cristiana, che avevano i loro magazzini all’interno dell’edificio, mandarono a chiamare il sacerdote Cornelio. L’apostolo Pietro si trovava a casa sua quando arrivò il messaggero, così entrambi si diressero in fretta verso il luogo dell’incendio, insieme con un gruppo di fedeli.
Vibio non avrebbe voluto appiccare il fuoco alla Basilica in pieno giorno, ma Balbillio non aveva osato disobbedire alla volontà dell’imperatore. I timori del sicario si mostrarono fondati: un negoziante notò Vibio uscire da una finestra che si affacciava su una strada secondaria e lo inseguì, ma perse le sue traccie nel labirinto di vicoli lì intorno.
A.

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