… Perché il disgusto per tutto ciò che è attaccato alla donna, la ripugnanza per tutto ciò che designa, naturalmente o culturalmente, come femminile, è il vero cemento tra l’idea della sua inferiorità e il fatto del suo sfruttamento.
Finché pensiamo che il parto sia l’orribile prezzo da pagare per la vita, finché continuiamo ad affermare che i compiti domestici sono, come disse Lenin stesso, il lavoro più meschino, più oscuro, più pesante, più debilitante, non si sradicherà né l’idea dell’inferiorità delle donne né la realtà del loro sfruttamento.
È vero che il lavoro delle donne è spesso debilitante, come tutti i lavori senza riposo o tregua. È vero che i compiti domestici sono pesanti, quando le molestie quotidiane e la fretta ansiosa rubano ogni prospettiva, ogni piacere di fare e ogni piacere di vivere; questa è precisamente la realtà del lavoro alienato.
Ma il triste? Ma meschino? Leggo altrove, e ovunque, sotto tutte le penne animate dalla preoccupazione liberatrice per le donne, lavoro domestico = lavoro ingrato, sporco, vile, degradante, ripetitivo (come se l’operaio che fissa una porta identica su un’auto identica trentacinque volte al giorno…. ma lasciamo perdere), improduttivo (come se tante migliaia di altri lavori… ma andiamo avanti), ma anche umiliante, povero, schiavizzante…
A dire il vero, e per tutto questo, basterebbe una sola piccola parola: basso. Tutti questi clamori generosi e indignati non fanno che ripetere ciò che gli uomini non hanno mai smesso di dirsi a bassa voce, tanto per lusingare se stessi quanto per sottomettere le donne: tutto ciò che le donne fanno è un lavoro umile… che bel concime, che potente conforto per lo sfruttamento delle donne, che olio magico per la rigidità dei loro macchinari.
Se il lavoro è basso, è perché l’operaio è indegno, quindi va bene farlo faticare notte e giorno, sudare sangue e acqua, e uccidersi sul lavoro, poiché è indegno…
Ascoltate il loro bel grido di giustizia: perché, dicono, i compiti meno interessanti toccano sempre alle donne e quelli più interessanti sempre agli uomini?
O evidenza ingenua e perfida!
O tirannia profonda, e così ciecamente permessa, del giudizio maschile!
Si sono mai chiesti qual è l’interesse di questo interesse?
No. Per loro, tutto ciò che è attaccato a una donna, per necessità, incidente o convenzione, si tinge immediatamente di ingratitudine, di bassezza. Non pensano mai che i compiti più prestigiosi, riservati agli uomini, brillano in tutto il loro splendore solo nella misura in cui le donne ne sono escluse. (…)
Francamente, cosa c’è di così basso nel lavoro di una donna in casa da renderci così unanimi nella vostra ripugnanza?
È il lavoro stesso? O è qualcos’altro?
Lavare i piatti, sbucciare le verdure, lavare i vestiti, stirare, spolverare, spazzare, pulire le piastrelle, lavare i bambini, dar loro da mangiare, rammendare i pantaloni usurati… Lavoro insignificante? Triste? Ingrato? Sterile? Degradante?
Cosa dice l’operaio della catena di montaggio? Il tagliabulloni? Il segretario, l’impiegato dei timbri? La sarta della fabbrica di vestiti? E tanti, tanti altri?
Meschino? Triste? Ingrato, degradante? Un lavoro variegato, molteplice, che si può fare mentre si canta, mentre si sogna ad occhi aperti, un lavoro che ha il senso stesso di ogni lavoro felice, produrre con le proprie mani tutto ciò che è necessario alla vita, piacevole alla vista, al tatto, al benessere del corpo, al loro riposo, al loro godimento…
Ma purtroppo, si è voluto che fosse servizio, sacrificio, devozione e dolore… era una felicità rara, questo lavoro così vicino al godimento, aveva il valore più alto, quello della vita stessa, questo lavoro così misto alla vita…
avete inventato i terribili valori del potere per rivolgerli contro la vita, contro la donna, contro il suo grembo fertile, contro le sue mani fertili…
di questo lavoro prezioso per eccellenza, di questo lavoro più grande di tutti gli altri, poiché il senso degli altri non può essere che quello di servire e preparare -l’agricoltura, la metallurgia, l’industria- il compimento ultimo di questo lavoro, di questo lavoro per il quale tutti gli uomini avrebbero dovuto lottare se avessero amato la vita e non il potere, se n’è fatto un lavoro forzato, nemmeno più un lavoro, una terribile palla al piede da trascinare, una oscura fatalità, una colpa mai commessa, e tuttavia sempre da espiare, quella di essere donna…
Non è spazzare o pulire il bambino che è meschino, degradante, è spazzare con l’angoscia del pensiero di tutto il bucato che deve ancora essere stirato; stirare mentre ti dici che non sarà mai pronto per la cena; vedere il momento in cui potresti prenderti cura dei bambini, aerare l’humus della loro terra, annaffiarli, portarli a braccia, mettere le risate nelle loro voci e le domande sulle loro labbra…
ciò che è umiliante è fare un lavoro che nessun uomo acconsentirebbe a fare, fare un lavoro che almeno metà dell’umanità guarda dall’alto in basso, non guarda nemmeno.
Se quest’opera fosse percepita al suo vero e altissimo valore, sarebbe amata, sarebbe scelta, ambita da uomini e donne. Non sarebbe più un peso, una necessità opprimente, insopportabile…
Se la divisione e la distribuzione dei compiti e dei ruoli è stata fatta in origine in modo giudizioso e razionale, è semplice dimostrare che è più conveniente, più interessante per la comunità, che le donne trattenute in casa dalla necessaria cura dei bambini piccoli siano anche incaricate di compiti che richiedono la presenza, o che la presenza rende possibile… È più conveniente, più interessante per la comunità, che gli uomini, più indipendenti dal loro corpo (niente mestruazioni, gravidanza, allattamento), siano incaricati dei lavori all’aperto che richiedono anche più forza fisica…
Come è successo che uno dei termini della differenza, la virilità, sia universalmente, e quindi come per necessità, privilegiato rispetto all’altro?
In effetti, questo ragionamento è possibile solo perché si basa sull’idea dell’inferiorità fisica delle donne, il cui criterio di apprezzamento è la sola forza fisica (la capacità di tagliare alberi, di correre, di sollevare pietre…). Ma se si vuole considerare che la capacità di perpetuare la vita, di partorire e di nutrire il bambino, è una capacità fisica della donna, allora è ovvio; soprattutto quando si ignora il potere fecondante dell’uomo, che i fatti in sé non dicono.
Quello che dobbiamo capire è perché, sulla base di capacità fisiche che sono certamente diverse, ma che non possono essere pensate fin dall’inizio in termini di disuguaglianza (non esiste un punto di riferimento comune che possa misurarle), uno dei termini di differenza è stato altamente valorizzato rispetto all’altro. Perché non c’è nulla, a priori, che spieghi perché questo termine piuttosto che quell’altro.
Perché il pene piuttosto che la vagina?