Perché in me ci sono sempre stati due pagliacci… SAMUEL BECKETT (da Molloy)


Perché in me ci sono sempre stati due pagliacci, oltre agli altri, quello che chiede soltanto di starsene dov’è e quello che s’immagina che più lontano si stia un po’ meno peggio. In tal modo io, in quest’ambito, ero sempre a posto, in qualche modo, qualunque cosa facessi. E cedevo a turno a questi due tristi compari, per permetter loro di capire il loro errore. E quella notte non c’erano problemi di luna, né di altra luce, ma fu una notte di ascolto, una notte dedicata ai minuscoli brusii e sospiri che agitano i piccoli giardini di piacere durante la notte, fatti dal timido sabba delle foglie e dei petali e dell’aria che vi circola in modo diverso che in altri luoghi, dove c’è minor costrizione, e in modo diverso dal giorno nel quale è permesso sorvegliare e incrudelire, e da qualcos’altro ancora che non è chiaro, non essendo né l’aria né ciò che vien mosso da lei. Forse è proprio quel lontano rumore sempre uguale che fa la terra e che gli altri rumori nascondono, ma non molto. Perché questi non spigano quel rumore che si sente quando si ascolta davvero, quando tutto sembra tacere. E c’era un altro rumore, quello della mia vita che faceva questo giardino cavalcando la terra degli abissi e dei deserti. Sì, nn mi capitava soltanto di dimenticare chi ero, ma anche che ero, di dimenticare di essere. Allora non ero più quella scatola chiusa a cui dovevo l’essermi così ben conservato, ma cadeva un tramezzo e io mi riempivo per esempio di radici e di steli quieti e buoni, di tutori morti da un pezzo e che sarebbero stati ben presto bruciati, del risposo della notte e dell’attesa del sole, e poi dello stridio del pianeta che aveva buone spalle, perché roteava verso l’inverno, e l’inverno l’avrebbe sbarazzato da queste croste irrisorie. Oppure di quest’inverno io ero la calma precaria, il liquefarsi delle nevi che non cambiano niente e gli orrori del ricominciamento. Ma questo non mi capitava spesso, per lo più rimanevo nella mia scatola che non conosceva stagioni né giardini. Ed era molto meglio così. Ma là dentro, bisogna fare attenzione, porsi delle domande, per esempio quella di sapere se si è ancor, e se no, quando finì, e se sì, quanto tempo durerà ancora, una qualunque cosa che vi impedisca di perdere il filo del sogno. Le domande me le facevo volentieri, una dopo l’altra; solo per stare a contemplarle. No, non volentieri, per saggezza, per credere d’essere sempre là. Eppure l’essere sempre là non mi diceva niente. Questo chiamavo riflettere. Riflettevo quasi senza sosta, non osavo fermarmi. Forse è a quello che dovevo la mia innocenza. Era un po’ vizza e mangiata agli orli, ma ero contenta di averla, sì, abbastanza contento.

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