Tu, sanguinosa infanzia – Michele Mari #LIBRI


Tutta (la piccinissima) raccolta di racconti che è “Tu, sanguinosa infanzia” è più o meno concentrata nell’ultimo racconto, “Laggiù”: “Una sera d’estate del 2030, nel giardino di un ospizio, due vecchi incominciarono a ricordare”, e da qui tutta una serie di ricordi e aneddoti sull’infanzia, fra incomprensioni, libri, film, strazio e nostalgia, “Non c’è stato molt’altro, nella vita. / No, è quasi tutto laggiù”.
Tutti e undici i testi della raccolta si concentrano proprio sull’infanzia, vista quasi come un’età mitica, non tanto per la sua bontà o felicità, quanto più per l’intensità e la sincerità della sua vita. L’infanzia che descrive Michele Mari, infatti, non è un’infanzia verso cui provare nostalgia per la felicità perduta, anzi, è un’età ricca di conflitti e di dolori, di ansia e paura, ma è anche un’età in cui tutto è provato fin nel profondo, senza nessuno scudo, senza nessuna razionalizzazione. E’ un’età di cose sacre. E proprio perché sacra, è un’età così oscenamente personale e intima, che il racconto si fa necessariamente ombelicale e autoreferenziale.
Mari scandaglia la propria infanzia, legandola indissolubilmente alle sue letture. Di una dolcezza e malinconia infinita sono i racconti letterari, come “Le copertine degli Urania”, in cui Mari ricorda come fosse rimasto al contempo terrorizzato e affascinato dagli Urania senza averli mai veramente letti, ma soltanto dai titoli e dalle copertine, o “Otto scrittori”, dedicato all’amore di Mari per gli scrittori marinareschi (e in cui emerge tutto l’amore che ha Mari per la lettura). Ma soprattutto il primo, “I giornalini”. Qua, Mari, scoperto di star per diventare padre, sfoglia i suoi vecchi giornalini, fondamento originale della sua biblioteca. Li sfoglia e decide di nasconderli per sempre, di non farli trovare al figlio, proprio perché così intimamente suoi, o meglio, così intimamente lui, che è insopportabile l’idea che il figlio non possa amarli così come li ha amati lui: “Io sono Cocco Bill, capisci? E se tu a Cocco Bill non dedicassi l’infanzia com’è certo che non la dedicheresti, è come se rinnegassi tuo padre”.
E, a proposito di padri, è impossibile parlare di infanzia, senza parlare di padri e madri. Mari gli dedica due racconti, vicini e centrali: “Certi verdini”, dedicato al rapporto con la madre, e “La freccia nera” a quello col padre.
“Certi verdini” è un racconto delizioso, dove il piccolo Michele e la madre si dedicano ai puzzle. Il racconto, ben presto, parte per la tangente, abbandonando l’aneddotica realistica per imbastire una specie di racconto esoterico della filosofia dei puzzle, amplificando ancor di più l’intimità del gesto, della passione comune fra Michele e la mamma. Come se quella passione comune, quel loro fare puzzle insieme, sia elevata a vera e propria setta gnostica esoterica di cui nessuno sa nulla. E’ l’intimità, il silenzio di quei gesti che per Mari contiene tutto il rapporto con la madre. Figura quella materna che è legata profondamente alla dolcezza e alla malinconia, come nei canti degli Alpini che soleva cantargli: “Di tanta memoria, di tutta la mia memoria, scelgo di portarmi nel nulla quel cortese fruscio, le screpolature nell’oro delle tavole medioevali, la misteriosa dolcezza di certi verdini”.
Più complessa e ombrosa è la figura del padre: “Io intrattenevo un insoluto rapporto materiato di paralizzanti terrori e di paralitici grumi di immenso affetto inespresso”. In “La freccia nera”, Mari ricorda di quando il padre gli regalò un libro, che, con sua somma angoscia, però, scoprì di aver appena letto. Il piccolo Michele allora non vuole dare un dispiacere al padre, non vuole sminuire il suo gesto, così finge di non averlo letto. Eppure, il regalo è rovinato, è come se avesse perso valore. Il che è un pensiero atroce per Michele, considerando che è un regalo di suo padre. Ma, ecco, che scopre che sono due edizioni diverse quella che ha letto lui e quella che gli ha regalato il padre. Si getta, allora, in una specie di comparazione filologica del libro, leggendo non soltanto la storia in sé, ma proprio la scrittura: ogni traduzione è un libro diverso. Dedicandosi a ogni singola parola, a ogni singola scelta lessicale, Michele scopre nuove sfumature, nuove differenze. E si apre un abisso fra i due libri: il regalo di suo padre è salvo. L’affetto è salvo. Ma rimane, imbattuto, inscalfibile, quell’infinito silenzio fra di loro, “Tutte queste cose, e tante altre, avrei voluto dirgli, ma non gli dissi niente”. A controbilanciare la disperazione di questa frase, in un altro racconto ci sta questo passaggio che, secondo me, presi insieme riescono a ridarci la complessità del dolore e della dolcezza del rapporto fra Michele e il padre: “e quando hai addolcito il tuo sguardo di quella luce speciale che mi riconosce uguale a te io non ho più avuto difesa”.
Letture, genitori, canti degli alpini, tutto va ad amalgamarsi in quel tempo mitologico che è l’infanzia. L’infanzia che è anche la nostra ferita originaria che non si rimargina mai, ma che, anzi, la cui perdita è un vuoto incolmabile, “ti rendi conto che a quindici anni io mi leggevo tutto Plutarco, per colmare quel vuoto? che durante tutta la vita ho sognato di massacrare dieci persone al giorno, che oggi il mio cibo principale è la benzodiazepina, che la mia arsura, non c’è acqua che possa spegnerla?”. Non che sia un tempo felice, come già detto, e “L’orrore dei giardinetti” racchiude perfettamente tutto il dolore e la solitudine che è l’infanzia, però è un momento pieno, sincero. E da lì comincia la perdita. La smemoratezza. Una perdita che è necessaria affinché l’infanzia si preservi. Eppure crudelissima e in un vuoto a rendere. “se Dio è negli orsini perché poi ci interessa la figa?”. “E il tuo dimon son io”, il penultimo racconto della raccolta (quello prima della chiusa-epilogo finale), vede un Michele che incontra in sogno Otello (interpretato ovviamente da Orson Wells), che gli mostra come abbia desiderato profondamente la morte di tutti coloro che avevano successo con le ragazze. E’ il passaggio verso l’adolescenza e la fine dell’infanzia. E’ la crudeltà e la rabbia. E’ la solitudine e l’esclusione. “Al primo embrione di struggimento per il retro di un ginocchio, dove ci sono quelle sottilissime vene azzurrine; al primo languore per una treccia color miele fermata da un vellutino nero; al primo e incompreso malessere, via! riportarmi indietro di quel tanto che fossero solo soldatini, macchinine, figurine, giornalini, e ghermirmi lì fra i diminutivi, ancora salvo, salvo per sempre, e concedermi di portarli con me un po’ di quei giochini, come un egizio, per compagnia”. Tornare laggiù, insomma, rifiutare quest’altra vita, poiché, appunto, ci sembra come tutto sia quasi tutto laggiù.