C’ERA UN RAGAZZO DI NOME PIERCARLO
Me lo immagino quello che state pensando. Pensate che stia raccontando questa storia perché voglio fare il dritto e perché ne traggo un certo solletico alle palle a raccontare storie sconce. Una sveltina in un vicolo, mettere le corna alla fidanzata strafatta. Aspetta un attimo, Rousseau l’ha già scritto un libro così. Lo so che non c’è una gloria perversa in questi giochini, e men che meno qualcosa di originale. Non sto cercando di fare il dritto qua, sto solo provando a spogliare delle sue foglie l’albero della verità cosicché essa possa brillare di luce propria. Sto tentanto di dirvi qualcosa sull’anima dell’uomo. Sto provando a dirvi qualcosa sulla salvezza. Sto cercando di dirvi qualcosa, se solo mi deste ascolto.
Ce ne andammo a casa sua, che stava giusto accanto all’ambasciata svizzera. Era enorme, sontuosa, moderna. Potevi quasi scordarti d’essere nel buco del culo d’Europa. Ero temporaneamente a Manhattan, lontano dalla puzza d’umanità. Ma ero felice? Manco per niente. Volevo tirarmi fuori l’uccello e pisciare sopra a tutto. Quel posto mi aveva intrappolato. Ero intrappolato dai letti confortevoli e dalle vasche idromassaggio e dall’impianto stereo e dalla tv satellitare e da un frigo traboccante e dal mobile bar e dovevo scappare, in qualche maniera, ma si stava rivelando tutto estremamente difficile. Ero prigioniero di una mecenate delle arti che mi faceva trovare perfino carta e penna sulla scrivania. Mi sedevo riluttante a produrre e lei che mi ballava il tip tap attorno. La vita era perfetta. C’era una ragazzo di nome Piercarlo, col cazzo così grosso che poteva succhiarlo. Avevo voglia d’urlare, era tutto così inutile, tutto quel lusso e la compagnia di una perfetta idiota. Se fossi riuscito a organizzarmi per rubare qualcosa e fuggire via non sarebbe stato un brutto piano. Chiaro che tutto quello di cui avevo bisogno era un lavoro e un posto tutto mio e solitudine – SOLITUDINE! – e un ritorno all’ordine e alla decenza, ma ero diventato orribilmente lasco. Per questo mi comportavo di merda con gli altri esseri umani in questa situazione innaturale, invece di starmene a sentire il traffico al buio di una camera in periferia, un posto dove sarei stato felice di nuovo.
Le basi per condurre una buona vita sono un’esistenza fatta di sani principi e un certo grado di sincerità nei rapporti con chi circonda, una concordanza tra la nostra vita interiore e quella esteriore, quella sociale. Ma Diana, con la sua soffice permissività da tenera di cuore e da testa tra le nuvole, non mi lasciava vivere. Mi aveva invitato a usarla per amore e io lo facevo e nel processo ero diventato un parassita senza valore, una sanguisuga sulla sua grossa chiappa sinistra. Sopratutto bisognava evitare le bugie, perché le bugie corrompono l’anima alla stessa maniera in cui la pioggia arrugginisce il ferro. Non è quello che ci dice Fedor nei Karamazov?
Quindi, vedete, stavo facendo del mio meglio per provocare un tumulto, bucare la bolla, e ci buttavamo sull’alcol, tutti e tre. A un certo punto Diana mi fece leggere una poesia e disse che era potente. Non lo so, sembrano sempre più stratificate e ruvide e pregne quando sono ubriaco marcio, e poi ho la memoria che non è chiara affatto, si fa tutto approssimativo ed eccomi solo un una stanza a lanciare frisbee contro l’ambasciata svizzera dalla finestra. Solo che non erano frisbee, erano compact disc di musica classica con sopra la batteria e le chitarre elettriche. Non la reggevo, ogni volta che la sentivo suonare di sottofondo mi trasformavo in un eunuco suburbano che infila lattine e pacchetti dentro a un carrello della spesa con sotto questa musica da castrati – all’inferno! Quindi bombardai la neutrale Svizzera, e gli ho mandato contro Céline Dion e pure Michael Bolton. Dopo sono tornato e stavano piangendo insieme là sul divano a proposito di qualcosa di molto emozionale, e ho pensato: che palle le donne.
E poi Afrodite mi punta il dito contro, con la faccia solcata dalle lacrime, dicendo: Mi ha scopata, il bastardo mi ha scopata!
UNA NOMINATION AGLI OSCAR.
È successo qualcosa di inesplicabile. Ma mi sentivo superbamente chiaro e concentrato e contento che stesse succedendo e scaraventai il bicchiere di whiskey contro il muro in uno spettacolo di rabbia mascolina niente male. Mi sarei fatto diffamare da una zoccola inutile? No di certo! Ero alto dieci metri sul grande schermo, era la mia occasione per beccarmi un Oscar le loro urla mi provocarono ancora di più e ribaltai con un calcio il tavolinetto da caffè. Ne avevo abbastanza. Gridai e agitai le mani e loro si avvinghiarono assieme come se fossi impazzito, il che ovviamente non era vero. Marciai verso la camera da letto principale – riuscivo a sentire ancora i loro strilli dal salone – e pisciai sul letto, che era una roba schifosa da fare ma c’era la mia anima in gioco e c’era bisogno di azione. Avrei potuto pur dar fuoco al posto, pensai, rimettendo a posto il pisello, sì certo. M’intrattenni col pensiero, ma era solo intrattenimento appunto, non avrei mica fatto qualcosa di così orrendamente illegale e distruttivo. Perciò avrei rotto qualche bene di consumo durevole come il lettore dvd. E con quell’idea in testa marciai di nuovo verso il salone. Afrodite stava sul bancone a sbrattare, aveva esagerato col Bailey’s – proprio il tipo di alcolico pretenzioso e da due lire che berrebbe una troia – e Diana era sul divano, tremante e piangente.
Proprio una bella serata, ci stavamo proprio divertendo e tu dovevi rovinare tutto. Rovini sempre tutto!
Sì, sì, come no, sempre la solita solfa, sono sempre io che mi becco la colpa e tu che farfugli. E che stanno facendo gli americani? Finanziano l’esercito israeliano per ammazzare i bambini palestinesi, ecco cosa. Accendono come un fiammifero la Colombia perché Whitney Houston sniffa coca. Sorreggono ogni piccolo stato di polizia che gli faccia estrarre il petrolio, tagliano le foreste e bruciano gli strati di ozono. Guardati intorno! Chi paga per tutta questa merda? Qualche donna con dieci bambini che lavora in una piantagione di banane in Guatemala. Stronza insensibile! Sempre a pensare a te stessa. Sto diventando vecchio. Morirò. Sono condannato a morte. Da dove pensi che salti fuori la mia poesia se non dall’esagerata nozione che ho della mia stessa mortalità? Se non dal guardare la candela della mia via terrena bruciare? E tu ti preoccupi del triviale, dell’effimero, col tuo fragile ego ferito. Ti preoccupi di dove ficco il mio pisello!
Hai ragione, bisbigliò lei. Sto facendo l’egoista. A te sere la libertà per creare. Ma mia hai fatto male!
Adesso provi di nuovo a farmi sentire in colpa!
Mi dispiace. Perdonami!
Non lo so se ci riesco! Tu e il tuo 11 settembre. Pare che siete gli unici al mondo che si sono beccati una bomba. Che mi dici di Dresda e Hiroshima e dell’Agente Arancio e dell’ambasciata cinese a Belgrado e di centinaia di migliaia di circoscritti iracheni che nemmeno possiedono un’uniforme? Che mi dici delle bombe intelligenti in Afghanistan che si sono scordate di indossare i loro stupidi occhiali e hanno fritto qualche pastore? Sai , mi sono sempre chiesto a che servisse questo club di golf qua, ma ora lo so.
Io sbracciavo. Lei indietreggiava.
Zio Osama è un controllore del traffico aereo e io sono un tipo da diciotto buche.
Gliele do al Dvd. È pieno di pezzettini di vetro sul pavimento. Diana singhiozza. Afrodite presenzia pesantemente sulla sfondo.
E l’ultima cosa che mi ricordo è che ero a letto con Diana ed era tutto buio e silenzioso e lei era assolutamente immobile e io stavo parlando tutto sciolto, confessando un omicidio.
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