Un Racconto di MATTIA GRIGOLO dalla raccolta TEMEVO DICESSI L’AMORE

INSEPARABILI

C’è un uomo con una voliera adagiata ai suoi piedi. Volge lo sguardo al cielo come ad aspettare, con serafica calma, che qualcosa gli cada addosso. Invece sta cercando. Mi avvicino.
«Cosa succede?»
«Il mio pappagallo è scappato. Dev’essere tra quei rami.»
Seguo con lo sguardo la sua stessa direzione. Poi torno sulla gabbia, dentro c’è un altro pappagallo. È minuto, le ali verdi, il petto giallo, la testa e becco rossi.
«Quello che è scappato è uguale, sono due pappagallini inseparabili.»
«Riesce a vederlo?»
«No.»
«C’è un modo per farlo tornare?»
«Se l’altro lo chiama forse torna.»
«Da quanto sta aspettando?»
«Più o meno mezz’ora.»
«L’altro l’ha chiamato?»
«No.»
Guardo ancora nella gabbia l’altra metà della coppia inseparabile.

«Che succede se si separano due pappagallini inseparabili?»
«Niente.»
Seduta sulla tazza del water, osservo Ofelia sciacquarsi le ascelle. Allarga un braccio, l’altro con la mano a conca, bagnata di sapone.
«Non muoiono di solitudine?»
«È una leggenda.»
Mia sorella si asciuga, poi si guarda allo specchio e si mostra i denti.
Afferra lo spazzolino.
«E come lo sai?»
«L’ho letto.»
Mi alzo dalla tazza, sfilo anche la maglietta e mi sdraio nella vasca da bagno, calda e schiumosa.
«Che succede a un uccello domestico che scappa dalla voliera?»
«Gira per un po’ nell’appartamento, poi rientra nella voliera perché è quello il suo mondo.»
«E se scappa dalla finestra?»
«Se non riesce a rientrare, muore nel giro di qualche ora, non sa adattarsi.»
«Anche questo lo hai letto?»
«No, me lo ha detto papà.»

«Come sta tua sorella?»
Mio padre sta spiumando un pollo.
«Il solito.»
«Il solito cosa?»
«Fa le stesse cose che ha sempre fatto.»
Ora il pollo è nudo.
«Perché continuate a convivere se non sopporti il suo modo di essere?»
«Perché siamo come due pappagallini inseparabili, ma io sono quella che morirebbe di solitudine, lei non credo.»
«Come?»
«Niente, lascia perdere.»
Papà sfila da un cassetto una mannaia, distende il collo del pollo.
«Allontanati che devo tagliare la testa.»
«Hai sentito mamma?»
«Un paio di giorni fa.»
«Come sta?»
«Il solito.»

Da bambine ci piazzavamo una davanti all’altra, per capire chi fosse la più alta. La punta del mio naso è stata all’altezza delle sue labbra fino ai tredici anni, poi l’ho raggiunta. Ora, a trentotto anni, Ofelia ha ancora i capelli rossi-rossi, io ne ho solo uno di meno e li ho ancora neri-neri. A lei però si sono allargati i fianchi quando ha smesso di nuotare, io sono rimasta sottile come prima, anche se pure io l’ho fatta finita con le piscine. «Sembri Olivia, la fidanzata di Popeye», diceva mia madre. Per il resto siamo identiche.
Quando eravamo adolescenti mi accompagnava alle giostre anche se non ci voleva venire. Papà la obbligava perché io da sola non ci potevo andare e lei da sola nemmeno, allora le diceva: Vai con tua sorella, che sei più grande. Le lasciava dei soldi per responsabilizzarla e convincerla. Ofelia comprava lo zucchero filato per me e per lei. A me sempre bianco, lei sempre rosa. Con il bastoncino tra le dita, avvicinava la nuvola ai capelli e diceva: «Come sto?»
«Perché io non posso averlo rosa?» Le chiedo un giorno.
«Perché quello bianco non ha i coloranti.
«E allora?»
«I coloranti fanno male.»
«E a te non fanno male?»
«Io sono nata con i coloranti già dentro il corpo», dice e si indica i capelli.

«Ti ricordi quando mi portavi alle giostre?»
«E come no. Ogni sabato tutta l’estate.»
«Non ti divertivi?»
«Dovevo starti dietro.»
«Quindi non ti divertivi con me.»
«Ero più grande, volevo fare altre cose.»
«Abbiamo un solo anno di differenza.»
«A quell’età è un abisso.»
«Ma mi vuoi bene?»
«Che palle, Marie.»

Vado a casa di mamma. Sta togliendo la terra da un vaso. L’accumula in un piatto di ceramica.
«Stai riesumando qualcosa?» Le chiedo.
«Come dici?»
«Che fai?»
«Ho perso una cosa.»
Si rimette a scavare. Le unghie sono diventate nere.
«Dentro il vaso?»
«Sì. come va con tua sorella?» Chiede.
«Sai che i pappagallini inseparabili non sono davvero inseparabili?»
«Davvero? Meno male.»
Sbuffa, dal piatto ripassa la terra al vaso.
«Non l’hai trovato?»
«Cosa?»
«Quello che cercavi.»
«No.»
«La pianta dov’è?»
«Tuo padre come sta?»
«Solito, cucina un sacco di roba buona e se la mangia da solo.»
«Andate a trovarlo?»
«Sì, qualche volta.»
Mamma sistema sul davanzale il vaso con la terra ma senza la pianta, poi si sposta al lavello e si sciacqua le mani. Infila le unghie sotto il rubinetto per togliere lo sporco.
«Perché hai detto meno male?» Le chiedo.
«Cosa?»
«Prima, quando ti ho detto che i pappagallini inseparabili non sono veramente inseparabili, hai risposto “meno male”. Perché?»
«Perché ogni essere vivente è destinato alla separazione.!

Ofelia ha portato una ragazzo a casa, li sento bisbigliare in cucina, strozzano le risate.
Prima di uscire di camera indosso degli short e me li strizzo in mezzo alle natiche. Slaccio i primi tre bottoni della camicia. Anzi quattro.
Dico: «Ciao.»
Lui si volta, lei mi guarda. Le si è congelato il sorriso.
L’occhio destro del ragazzo prova a slacciarmi gli ultimi bottoni della camicia, quello sinistro mi sta implorando di voltarmi e fargli vedere il culo. «Ciao», dice e si alza con la mano tesa verso di me.
La stringo delicatamente, lascio a lui la morsa.
«Stefano.»
«Marie, piacere.»

Il giorno prima di compiere sedici anni, Ofelia mi chiede se l’accompagno in un posto. Dice che ci andiamo in motorino. Io chiedo quale motorino e lei risponde che glielo presta un amico e io allora la avverto che se la becca papà le rovina la festa. Lei dice che se vado devo stare zitta. Io le chiedo quando devo stare zitta e lei risponde:
«Sempre, da questo momento fino a quando torniamo, ma sopratutto quando siamo lì.» Il motorino è dietro l’angolo, ci saliamo e partiamo. Non lo sa portare e sbanda di qua e di là, ma arriviamo. Scendiamo, lo spinge sul cavalletto, faccio per sfilarmi il casco e lei dice di tenerlo.
Con un colpetto mi abbassa la visiera. Si siede sulla sella e aspetta. Io anche, in piedi con il casco allacciato.
Arrivano due grossi tizi in moto, con la barba e i tatuaggi sulle mani. Le dicono qualcosa in dialetto e lei risponde in dialetto. Poi quelli le passano l’erba e lei gli dà ventimila lire. Uno dei due, quello rasato, mi dà due colpetti sul casco, leggeri ma che mi fanno vibrare, che ha le mani che sono vanghe. Dice che sembro quel robot giocattolo, Emiglio. Ride e pure l’altro ride. Io mi agito, mi vergogno, faccio un passo indietro, inciampo nel retro del motorino e finiamo a terra sia io che mi sorella perché mi ci aggrappo e me la tiro dietro. Solo il motorino resta in piedi. Quelli ridono di più, allora Ofelia si alza, si avvicina con la fronte alle labbra di quello rasato e guardandogli il mento da vicino-vicino dice qualcosa come: «Tu a mia sorella non la devi nemmeno guardare, figurati toccare.»
Glielo dice in dialetto.

«Ti ricordi quando mi hai portata a comprare il fumo dai motociclisti?»
«Era erba.»
«È uguale. Ti ricordi?»
«L’erba non è uguale al fumo, Marie.»
«Però ti ricordi.»
«Certo che mi ricordo.»
«Che gli hai detto a quello di non toccarmi.»
«Che sei caduta come una mela dall’albero e mi hai fatto fare una figuraccia.»

Siamo entrambe da papà. Ofelia guarda la TV, seduta sul divano. Le gambe allungate sul tappeto, scalza. Io guardo dalla finestra un albero che si muove.
Papà sta preparando da mangiare.
«La casa è a posto?» Urla dalla cucina.
Ofelia non risponde.
«Sì, pa’» urlo io.
«Vi siete comprate qualcosa di nuovo nell’appartamento?»
«La libreria», dico.
«Bene. Ofelia, tu non hai comprato niente?» Chiede papà.
Lei si volta verso di me.
«Scusa, non ho capito, la libreria non posso averla comprata io?» Chiede.
«No», dice lui.
E infatti la libreria l’ho comprata io.

Mia madre dice che quando avevo un anno Ofelia ha provato a uccidermi mentre ero dentro il seggiolone, quello con le ruote per portarlo in giro per casa.
Mia madre va in bagno per sciacquarsi e quando torna c’è la porta d’ingresso aperta. Corre e mi sorella è sul pianerottolo che mi sta spingendo con il seggiolone verso le scale. Quando mamma afferra me e Ofelia insieme, il seggiolone è già sbilanciato oltre lo scalino.

«Guarda che è normale essere gelose delle proprie sorelle.»
«Io non sono gelosa, mi dà fastidio che fai la gatta morta con i ragazzi che frequento.»
«E a me che porti gente in casa senza dirmelo.»
«Ma questa è anche casa mia, mica sono un ospite.»
«Sì, ma dobbiamo convivere e vorrei sapere quando ti porti i date qui. Hai pure quasi quarant’anni, che tristezza.»
«Quindi sarei io quella gelosa?»
«Sei tu che mi stavi buttando giù dalle scale con il seggiolone.»

Ofelia se ne va in estate. Dice che parte due settimane, ma quando vado in camera sua, apro gli armadi e sono vuoti, il letto è sistemato, nei cassetti e sulla scrivania non c’è più niente. Nemmeno una lettera, un biglietto, la polvere.
Le mando un messaggio e le chiedo se ha allungato la vacanza. Dopo un’ora mi telefona.
«Marie, l’appartamento è tutto tuo», dice.
«Perché?»
«È ora di diventare grandi per davvero. Ho quasi quarantanni, me lo hai detto tu», dice.
«Sei arrabbiata con me?»
«No, figurati.»
«Ti sei fidanzata con il date?»
«Non l’ho più rivisto da quella sera», dice.
«E allora?»
«E allora cosa?»
«Perché non vuoi più stare con me?»
«Marie, voglio vivere da sola, che c’è di male?»
«Ok.»
«Vengo a prendere altre due cose fra una settimana. Il resto te lo regalo.»
Mi saluta e riattacca. Guardo la finestra. È aperta, spalancata.

Entro in casa di mia madre usando le chiavi che mi ha lasciato quando si è trasferita. La chiamo dall’ingresso per non spaventarla. Non risponde. È in cucina, accucciata sotto il lavello, lo sportello aperto, la schiena e la testa nascoste.
«Mamma?»
«Ciao Marie», dice da laggiù.
«Che fai?»
«Provo a smontare il sifone.»
«E perché?»
«Ho perso una cosa.»
«Sempre la stessa?»
«Come?» Esce gattonando, si rialza con una smorfia, i capelli arruffati in uno chignon che sta crollando.
«Mi vuoi dire cosa stai cercando?» Chiedo.
Alza la mano sinistra e mi mostra l’anulare.
«Perché è così importante per te? Non ha nemmeno più valore. Sicuramente papà l’ha abbandonata in qualche cassetto. Solo tu continui a tenerla al dito.»
Si guarda intorno senza prestarmi attenzione, sposta gli occhi su altri luoghi oscuri, cercando quello che potrebbe essersi ingoiato la sua fede.
«Che succede?» Mi chiede allungandosi verso una credenza.
«Ofelia se n’è andata.»
«Lo so» e infila le mani e poi le braccia dietro a piatti e bicchieri.
«Da quanto lo sai?»
«Un paio di settimane.»
«Cosa ti ha detto?»
Si volta, appoggiando i palmi sui fianchi. Mi guarda a lungo, fino a quando non distolgo gli occhi dai suoi, come i cani.
«Perché continui a cercare?» Le dico. «Lo hai detto tu che ogni essere vivente è destinato a separarsi.»
«Ma non ho detto che è facile.»

Entro nel negozio di animali. C’è odore di bestie. I cuccioli di pinscher in vetrina saltano l’uno sull’altro. Il persiano mi osserva seduto sulla coda. Voliere dondolano. Il proprietario, un vecchio dalla barba brizzolata, sta guardando dentro l’acquario delle tartarughe. Dice: «Buongiorno.»
«Ce li avete i pappagalli?» Chiedo.
«Certo.»
«Anche quelli inseparabili?»
«Ne ho due coppie, venga.»
«Ne voglio uno.»
«Una coppia?»
«Un solo pappagallo inseparabile.»

Mattia Grigolo, da TEMEVO DICESSI L’AMORE (TERRAROSSA Edizioni)