ALCUNI ESTRATTI DA:
‘Seminario sulla gioventù’ DI Aldo Busi
La medicina fa bene se è amara.
Lì a rivolgere parole d’incitamento al suo remotissimo membro e a interrogarsi sul mistero della vita, che più la chiami meno risponde, e più inavvertitamente la sfiori e più prepotentemente trasale e zampilla, come.
Un’accecante luce gialla, pulviscolo, copriletto con le frange d’oro; i suoi passi rimbombavano e finalmente i battenti vengono accostati; un nitrito di cavallo s’avvia su per la salita e si spegne nello spesso cuscino di piume su sui Barbino appoggia l’orecchio buono, così non sente più niente. Bisogna dormire o almeno far finta.
La voce, cauta, premurosa, che mi sveglia ad ogni ora della notte per chiedermi se ho bisogno di qualcosa, che lui veglia su di me, che dorma bene, tesoro suo. Faccio a contenere il mio odio, la mia volgia assassina. Forse il suo piano non è altro che rinfocolarla, farla esplodere, coltivarsi giorno per giorno il suo carnefice.
Se si pensa, poi, che non sono affatto portato alla prostituzione per egoismo perché son troppo legato al fatto di andare in giro a cercare il mio di piacere e che quello degli altri è un fatto che non mi riguarda, si avrà un’idea di questa follia arbritraria e consapevole, di un’infinitezza esaltante, irrinunciabile, e che, oltretutto, mi fa conoscere un sacco di gente strana e spregevole (molto umana) che m’insegna sempre come non essere, come non diventare.
Ma la mia vendetta è molto semplice: smascherare la gente, denudare le persone di fronte alla società, fargli toccare il fondo della loro bestia imperfetta e rimossa, sovrastrutturata da tanti pepli umani pietosi, acquisiti, accettati, subiti, perseguitati, covati fino alla meccanicità.
Stà attento, sono una iena che si crea le sue carogne.
Fuggire. Londra, per esempio. Ma da chi? Fuggire da me per andare da me? Oh, sono desolato come un poppante che tira da una mammella sgonfia. La cosa mi irrita e mi dispiace, questa mia amica non è perfettamente asettica. Questa mia amica è una donna a oltranza.
Comare volpe è un ottimo maestro per convincermi che un uomo è quello che è, che non si può e non si deve fare niente per lui, che ubbidisce soltanto al proprio destino e che non c’è niente da fare. E che le metamorfosi sono rare. Un papà che tira fuori il pisellino a un cosino di 3 anni. Ecco la lezione che avrei dovuto imparare da lui, che sta dalla parte della violenza politica organizzata nella legalità burocratica, impenetrabile e determinante per tutti coloro che non sono nella stanza dei bottoni come lui. Per lui è tutto più facile. Può sempre ricorrere alla fenomenologia e spiegarsi, far vedere che tutto il male non sta da una parte. Grazie tante. Ce ne sono di grosse e turgide di sangue come ciliegie. Comare volpe non vuole vivere o esistere, vuole fare carriera – possibilmente politica. Quando uno vuole fare carriera e basta, è la cosa più semplice del mondo: basta concentrarsi sul fatto che i mezzi giustificano i fini e è fatta, i cadaveri sono inclusi nell’armadio.
S’immagini: qualcuno sa di avere dei nemici e di aver fatto in passato cose da meritarseli. Per tutta la vita o per tanti anni aspetta la resa dei conti in cui dovrà soccombere, piegare la testa, venir ripagato della stessa moneta e nessuno che si fa avanti. Va all’anagrafe: no, gli viene detto, il tale e il tal altro sono tuttora vivi e vegeti, non è morto nessuno. E tutti che si sono scordati di lui. Persino i nemici. Va a casa e si ammazza.
Ecco, il rivolo dei suoi pensieri si è già inaridito. Le carezze in vista deviano il corso dei suoi pensieri.
Le persone peggiori sono quelle che si danno poteri che non hanno.
Perché mi sono deciso a questo acquisto di fogli bianchi da rimepire? Ieri, come per sortilegio dopo tanta attesa, ho sentito che i miei pensieri adanvano pontaneamente componendosi in immagini di linguaggio scritto, da soli, senza alcuna intenzionalità, come è già accaduto, e che, contemporaneamente, questo filo che mi brucia tutt’intorno la faccia si raffreddava e io stavo meglio e mi passava il mal di testa. Non m’importa di quei pensieri e non ne ricordo uno: essi sono stati l’annunciazione che un’idea poetica va maturandosi in segreto e che devo tenermi pronto a realizzarla, quando verrà il momento. Aspetto, senza forzare il respiro. Faccio lunghe gite in bicicletta al fiume, per distrarmi dall’incombenza psicologica di questo evento gratuito, per non molestarlo con l’impazienza dell’infermo che non vede l’ora di potersi disarticolare. L’importante è non ridurre tutto a un trauma.
Certo le parole non sono prorompenti come una volta, belle e temerarie come allora. Io e la mia penna ci siamo cristallizzati un poco, ma questo lo sapevamo già prima di riunirci e non c’è acrimonia fra noi due. Finché ci sono sensazioni e inchiostro andiamo avanti, poi, quando arriverà il tempo magro delle idee, ci deporremo, ci saluteremo senza rimpianti.
Da tempo aveva smesso di sfogliare la rivista. Il mio giornale era finito appallottolato nel cestino dei rifiuti. Aspettavo. Aspettava. Aspettavamo di maturare la spontaneità sufficiente per chiedere un cerino, banale pretesto, o… che avremmo mai potuto chiederci? Tentai di non pensarci, di appisolarmi, di fingere sonnolenza, di distrarmi voltandogli ler spalle, ficcandomi nel becco di un cigno nero che secondo me stava sbadigliando, stanco di stare in ammollo a fare da testimone a una cosa che non succedeva mai, che era ineffabilmente già successa che nel mondo animale non ha senso.
Dato che tutta la mia vita è stata contrassegnatra dalla necessità di unire l’utile al dilettevole – purché l’utile fosse ben evidente, visto che il dilettevole è stato il più delle volte facinoroso – o comunque di mercanteggiare anche l’ultima delle mie energie, potermene star là in piedi a chiacciare zanzare mi sembra un lusso inaudito, un inaudito sfoggio di potenza.
Finalmente qualcosa che non ha il cartellino del prezzo: niente da vendere, niente da comprare, niente da barattare.
Lontano dal lui, sono anche lontano da me. Mi detesto perché non riesco a sradicare questa purulenta radice. Lontano da me come il ramo più lontano dal tronco, mi odio, e scheletrisco e non potrò mai più ricongiungermi alla radice che mi teneva col fato sospeso.
Una madre riesce a mantenere dodici figli e un marito, ma dodici figli e un padre…, e guardava davanti a sé la vastita dei suoi proverbi maledettamente veri.
Ma cos’è questa amarezza sorda prima di andare a letto, se non la certezza di portarci un corpo vuoto, pieno di una libertà che non interessa a nessuno?
Meglio una fine con spavento che uno spavento senza fine.
Cerca di coinvolgermi in un gioco di specchi che mi è noioso come una barzelletta sentita decine di volte – vuole impossessarsi di me facendo leva sui miei sensi da magnetizzatore, capace di assumersi per pietà, per bisogno, per interesse e poi, sì, lo ammetto, per curiosità, le magagne della vita altrui. Basta con la soma degli altri, arrangiatevi – le sue storie lacrimevoli di piccola borghese che non poteva confidarsi con la mamma bigotta non m’interessano. Le mamme vanno educate, altrimenti se ne portino le conseguenze.
Il vero atto gratuito è quello di non averne mai commesso uno. Non esiste.
Il colonnello non pensa una sola parola di quello che dice, lui non ha rimpianti, solo sensi di colpa. È come se volesse occultamente farle una lobotomia incidendola con inermi frasi fatte.
Ma ora non sei mica giovane, sei al tramonto, come me. Evviva i tramonti!, esclama lui, cercando di far deviare l’argomento sul binario un po’ scontato del vecchio gaudente sereno di fronte alla morte.
Evviva, sì, se c’è stata un’alba…
Ripensandoci, in treno verso casa, resto allibito di come l’aurea in me rimasta dell’amore con Marie sia così poco passionale: niente di apocalittico, nessun struggimento imprevisto. Di Marie comincio a vedere quella smorfia agli angoli della bocca mentre faceva all’amore e che compariva in tutte le altre espressioni del viso. Una specie di cicatrice permanete sotto la pelle, che finiva per uniformare le qualità di quel viso bellissimo e intenso ma irremediabilmente condannato alla fissità di un piacere manifesato sempre con uno scarto lubrico delle labbra, il peso morto di un’abitudine a rapporti goduti come luridi, eccitantissimi in quanto spregevoli, anche quello con me, così pieno di consapevole abbandono. Una di quelle persone che, per tante ragioni, finiscono troppo presto per fare di tutti i maschi degli uomini e, quando vorrebbero poter essere ancora capaci di distinguere, non sanno più e se separano un uomo dal mazzo, inevitabilmente lo chiamano con il nome di un Dio – e a un vero uomo questo dà fastidio.
Ha sempre questo potere di farmi sentire colpevole di tutto quanto non ho commesso e di tutto quanto non ho potuto impedire. Questa goccia di profumo, qui, davanti alla sua gamba, è diventata una spina che penetra nelle mie narici e si ficca in un punto del cervello, tormentosa e gigantesca, come il mio sentimento di vigliaccheria disarmata, di nullità che lei riesce sempre a calcarmi in testa.
Lontano da qui, lontanto da questa miseria che renderebbe tutto più difficile, non tanto la vita quanto un probabile suicidio, tutto potrebbe finire in una notte qualsiasi, dopo una sigaretta e perché no, dopo essermi messo una goccia di profumo ai lobi. Qui tutto è fermo e eterno e impossibile. E lei non parla mai a me, parla sempre e solo a se stessa. Io per lei ho sempre tredici anni, non sono cresciuto, non crescerò mai. Tutti noi l’abbiamo tradita una volt aper sempre, abbiamo preso tutto da questa donna senza mai ciederci da dove la prendeva la forza di dare e dare continuamente come ha fatto lei, finché lei s’è stancata di lui e di noi tutti. E ha preso a ignorarci, a stare con noi ricordandoci anche quando le stiamo di fronte. Ma io non l’ascolto più e non cìè più niente che sia tenuto a farle sapere.
Dio, questo pacco; e tutte le congetture che faccio sulla lettera d’accompagnamento: te le invio tutte, per poterti far avere quella di Antigone che non c’è, o anche: bisogna togliersi tutte quelle che abbiamo per metterci quella che non esiste, o: l’unica maniera per mettersela, è togliersela, e via di questo passo, maschera dopo maschera.
Sono tutte domande retoriche, che si fermano sempre al di qua delle cose e lei oramai è in un circolo vizioso tutto suo, suo e delle sue amiche, in cui non riesce mai a inglobarmi; come lei allarga l’ultima possibilità di qeusto compasso misterioso con cui circonda l’esistenza, io faccio un saltino e sono sempre al di fuori del suo tracciato; di un pelo, ma mi basta.
Non ritorno mai due volte sullo stesso luogo e se lo faccio devo scappare via subito perché è sempre un fallimento garantito. Non mi va più di vedere qualcuno che conosco già fino in fondo.
Non saprei più tacere.
SEMINARIO SULLA GIOVENTU’ – Aldo Busi