Henry Bech vince il Premio Nobel. JOHN UPDIKE

Vostre Altezze reali, egregio Sindaco di Stoccolma, membri dell’accademia, esimi ospiti nazionali e stranieri: il premio Nobel è diventato così importante, così ricco e famoso – un’autentica stella tra i premi – che nessuno è degno di vincerlo, e l’imbarazzato vincitore si trova a nascondere la sua inadeguatezza dietro l’inadeguatezza di tutti gli altri. Ci eleva, questo premio, a un’altezza terribile, un momento di attenzione globale, e ci induce a pontificare. Guardando giù, verso il nostro pianeta, vedo crescere il divario tra quelli che prendono gli aeroplani e quelli che non possono; tra quelli che hanno spiccato il volo nel cyberspazio e quelli che sono rimasti indietro, sulla superficie terrestre, ad arare il suolo, a pescare nei mari, a svolgere le mansioni necessarie che un tempo costituivano la dignitosa sostanza delle vite dei più. No. Che ne sapeva lui, delle vite degli altri? Conosceva solo la sua, appartata, e quell’altra manciata con cui aveva interagito. Il discorso sugli aeroplani era obsoleto. Si ricordava di quando salire su un aereo era un’avventura per pochi, vestiti con completi e abiti di gala, e l’eleganza era amplificata da un’aura di pericolo mentre sobbalzavano tra le cime argentate di cumulonembi art déco, un’aura a cui lo champagne gratuito e le prelibatezze a base di anatra e di manzo, servite su veri piatti di porcellana, aggiungevano uno sfarzo degno del Titanic. Ma ora a bordo sciamavano le stesse persone che un tempo si spostavano in autobus. Indossavano jeans e pantaloni corti e perfino quelli che sembravano pigiami, una ressa di corpi sudati che affrontava un sbalzo di millecinquecento chilometri come fosse un giro al supermercato. Per loro il volo non era un miracolo, non più del pane quotidiano. Stipavano i borsoni e i laptop ammaccati nelle cappelliere e non si curavano nemmeno di guardare fuori dal finestrino, mentre sfidavano la morte a diecimila metri di quota. E così il capitalismo, il nostro credo trionfante, aveva ragione: le masse venivano trasportate, trascinate a centinaia di milioni sulla scala del benessere costruita dall’impresa e dalla tecnologia. Il telefono e la radio, il cinema e la televisione, il motore a combustione interna e i propulsori a reazione… il genere umano li ha assorbiti con la stessa prontezza con cui i nativi americani hanno accolto i fucili, i cavalli e l’acquavite. Quello che è accaduto nel bacino della Ruhr e del Merrimack accadrà in Malesia e nel Mali: tutti saranno ricchi, civilizzati, nevrotici e infelici. No. Meglio evitare le questioni economiche e geopolitiche. Chi poteva dire dove stesse andando quel mondo meraviglioso, in tutte le sue molteplici evoluzioni? Doveva toccare una corda personale, come avevano fatto Oe e Heaney. L’adolescenza tra il West Side e Brooklyn. L’esperienza della guerra. La legge sui veterani, la New York University. Il Village negli anni Quaranta, la Novantunesima Strada dopo i Cinquanta. I libri per me, quando ero giovane, erano oggetti rettangolari che si trovavano negli empori, nelle cartolerie e, senza le sovraccoperte lucide, in biblioteca. Lì i loro dorsi polverosi, con la numerazione decimale in inchiostro bianco, sembravano piume su un’ala scura e protettiva; il loro aroma di colla secca si mescolava con gli odori malinconici e decadenti di uomini anziani, definiti barboni negli anni della mia giovinezza e senzatetto in quest’epoca più illuminata. Cosa significavano quei libri? Chi li produceva? Be’, li producevano uomini in giacca di tweed, che fumavano la pipa e vivevano in Connecticut. E donne appena meno affascinanti delle stelle del cinema, ammantate di chiffon oppure, come Dorothy Thompson e Martha GellHorn, vestite da uomini, e perfino da uomini in tenuta da battaglia. No. Agli svedesi, e al mondo, non interessava sentir parlare degli autori virtualmente dimenticati che un tempo erano le stelle del firmamento di Bech. Doveva parlare, invece, dell’estasi senza tempo che provava quando la matita toccava la carta e lasciava il suo segno. Ma quel momento atomico non era troppo piccolo per essere portato all’attenzione di un pubblico tanto vasto? In un mondo di sofferenze e carestie e massacri, l’estasi dell’arte non era una cosa oscena? E ora?, si sarebbe chiesto, a voce alta. Il mondo della carta stampata? L’editoria, quella vecchia carcassa sbatacchiata qua e là da sciacalli famelici? Autori avidi, agenti avidi, catene di librerie stereotipate coi loro bar infestati di Vivaldi, case editrici in mano a colossi metallurgici amministrati da contabili di Ginevra, glaciali e senza cuore. E nel frattempo il linguaggio, il linguaggio umano che noi tutti dobbiamo usare, non più deturpato dai neologismi folli e omicidi di Gobbels e dalle testarde ambiguità del comunismo burocratico, si sta trasformando nel mellifluo chiacchiericcio di Microsoft e Honda, cospirazioni aziendali che mirano a trasformare il mondo in una gigantesca partita di flipper per consumatori rimasti bambini. L’inglese, la splendida lingua, biforcuta e spigolosa, di Shakespeare e Gerard Manley Hopkins, di Charles Dickens e Saul Bellow, sta davvero diventando il codice binario di un impero di vestiti grigi, governato da uomini che camminano per le strade di Hong Kong e Manhattan blaterando al cellulare? Chi impedirà al mondo di evolversi? I poeti? I dilettanti come il sottoscritto? Non fatemi ridere, Vostre Altezze ed eccellenze assortite. Come un mio caro e vecchio amico ha recentemente avuto il piacere di annunciare alla stampa americana, il vostro premio è una barzelletta.

*JOHN UPDIKE – – da VITE E AVVENTURE DI HENRY BECH, SCRITTORE