UNO COME NOI. Un Racconto di PINO ROVEREDO (da Mandami a dire)

Era uno come noi, il tipo di persona che, cullandosi sopra l’altalena del tempo, fatica il giorno per guadagnarsi la notte. E si annoiava come noi, che ballavamo le stesse danze sopra le medesime domeniche e piangevamo il nostro niente dentro il solito lunedì.

Era uno come noi, noi che siamo cresciuti dentro la tradizione dell’identica storia, storia trascorsa tra lo strillo del biliardo e i silenzi della messa, sopra i pedali della bici e sotto un sogno che sognava col rumore del motore. Noi, cresciuti su con la convinzione che la nostra valle fosse uguale al mondo, e il mondo, come la nostra valle, vivesse la consuetudine dello sbadiglio. Solo il cine ogni tanto tentava di imbrogliarci con la bugia, ma appena si accendevano le luci, trattavamo quelle scene tagliate e incollate come la cronaca impossibile di un’assurda fantasia.
Noi pensavamo, anzi, eravamo profondamente convinti che lui fosse uno come noi, e invece un giorno, mentre eravamo occupati con il girotondo delle solite cose, ci smentì, e spaccando il nostro tondo ci dichiarò la sua partenza.
Quel giorno lo salutammo dentro l’immagine in bianco e nero di una foto scattata dal finestrino della corriera, mentre prometteva alla nostra invidia di spedirci tutte le immagini colorate della sua vittoria. Nel momento della partenza ci lanciò un sorriso che sembrava bestemmiare sulla nostra attesa, mentre un fazzoletto senza lacrime, strappatogli dal vento, finì sulle nostre facce sbalordite, rigide più della pietra.
Sì, era uno come noi, uno che faticava di giorno per guadagnarsi la notte sopra l’altalena del tempo. Uno che, per una questione di spinte sbagliate, ha trasformato l’azione della speranza nella delusione fatale del rimpianto, e come spetta al destino degli illusi, si è guadagnato l’eternità della notte senza poter più spendere l’opportunità del giorno.

Fu una chiamata del lunedì ad avvisarci di tornare alle nostre case e non aspettarlo più, perché tanto, ormai, tutto attorno alla nostra valle il cerchio dei monti offesi si era sollevato più alto di prima, impedendo a chiunque il rimorso del ritorno.
Ci rimandarono indietro tutti i suoi cassetti vuoti, perché i sogni che li avevano riempiti si erano dispersi lungo il viaggio. D’altronde, anche se ce li avessero restituiti, nessuno avrebbe osato riciclarli.
Lo predicavano anche i vecchi, che hanno ormai consumato il dondolio di giorni e notti e che possono soltanto logorarsi i pomeriggi seduti sopra le panchine della piazza – Sicura disgrazia per chi s’immischia con ciò che non esiste.

Non c’è niente da fare, noi siamo i figli della montagna, e quello dobbiamo restare, perché le nostre alture permalose, non si lasciano oltraggiare con le fughe, altrimenti possono rispondere all’offesa capovolgendo le proprie discese nella difficoltà impossibile delle salite. Proprio come il nostro amico, uno che si era convinto di avere sempre un sogno più degli altri.

Era uno come noi, uno che sopportava il sole per meritarsi la luna copra il viavai del sogno. Ora noi, per non essere come lui, fatichiamo il giorno, e se non basta, ci sfiniamo anche la notte sopra l’altalena rigida della rassegnazione. Noi che teniamo sveglia l’attenzione per non scivolare nel sogno, e per questo, cadere poi dentro il castigo, perché il girotondo dei monti, con il suo cuore di pietra, non concede il perdono a nessuna fuga, no, nemmeno a quella che si prova a sfiorare col gioco sciocco del pensiero.

LEGGI: PINO ROVEDEREDO in MANDAMI A DIRE, Bompiani