Una mano lo scuote. Rassul! Rassul! Non è la voce di Sophia. È la voce di un uomo. Una voce nota. È Razmodin, suo cugino. Ma dov’è?
Lì, davanti a te, in camera tua. Apri gli occhi!
Sveglio solo a metà, Rassul si tira su di colpo lasciando cadere Delitto e castigo che aveva sul petto. Razmodin? Il nome del cugino gli agita le labbra e vi si perde. Tossicchia e finge di dire Salam. Razmodin, inginocchiato accanto a lui, lo guarda preoccupato. Tutto bene, cugino? – Rassul spalanca gli occhi, poi li richiude subito, pensoso. – Che succede? Stai bene? – insiste Razmodin. Rassul annuisce e si siede sul materasso, lo sguardo che corre alla finestra rotta nella stanza. È già giorno, ma il sole è ancora nero, nero dietro il fumo. – Vuoi che ti porti da un medico? – No, va tutto bene, fa lui. – Sì, si vede! Dimmi che cosa succede? – Lo sguardo di Razmodin, preoccupato, indugia sulla camicia di Rassul. – Cos’è quel sangue? Ti hanno picchiato?
Dopo un breve istante di riflessione, Rassul si alza in piedi per gettare un’occhiata nel cortile, dove intravede Yarmohamad che lo osserva. Gli fa segno di salire nella sua camera. Ma Yarmohamad si ritira in casa. _ lascialo! È venuto nel mio ufficio, all’alba, per raccontarmi tutto. Era pallido e mi ha detto che non è stato lui… Ed è vero. In questi giorni ci sono pattuglie ovunque. Specie in questo quartiere… Tu non sai cosa sta succedendo nel nostro paese. Sepolto in chissà quale mondo, non ti interessi… – Basta, Razmodin, per favore! Guarda cosa gli hanno fatto.
Razmodin si ferma, non per guardare in che stato è Rassul, ma per sentire le sue spiegazioni. Aspetta. Non una parola. È stupito. Rassul si tira su le maniche per mostrargli i numerosi lividi. – Che figli di puttana! Ma anche tu sei fuori di testa. Perché ti tieni tutti questi libri russi, con l’aria che tira? – Rassul è di nuovo in preda al dolore alla caviglia.
Ha il viso stravolto e se ne torna a letto per massaggiarsi. Il cugino lo fissa: Dostoevskij! Dostoevskij! Finisci sempre nella merda con il tuo Dostoevskij! Figurati se quelli lo conoscono, Dostoevskij!
Non tutti sono ignoranti come te, Razmodin! Il comandante Parwaiz, per esempio, che sicuramente avrai sentito nominare, lo conosce. Le sue truppe sono qui, di fronte al tuo albergo, al ministero della Informazioni e della Cultura. Ma nelle mie attuali condizioni non posso parlartene.
Scriviglielo!
Perché mai? Sono più tranquillo così, senza parole, senza conversazioni interminabili. Lo lascio con tutta la sua perplessità di fronte al mio mutismo.
– Yarmohamad mi ha detto che ti avevano portato dal comandante Parwaiz. Lo conosco. – Ecco, hai ragione. – Durante le manifestazioni del 1979 siamo stati in prigione insieme. Ti è andata bene di esser capitato con lui. Gli hai parlato di me? – Rassul fa no con la testa, poi si alza per mettersi di nuovo davanti alla finestra. Yarmohamad è tornato nel cortile. Rassul gli fa di nuovo cenno di salire. – Dimenticalo, la faccenda è chiusa. Gli ho dato i due mesi di affitto arretrati, ti lascerà in pace -. Imbarazzato dalla generosità del cugino, Rassul se ne torna a piccoli passi verso il letto e tenta di dirgli a gesti che non avrebbe dovuto, che avrebbe pagato lui… le stesse parole che aveva tirato fuori la volta precedente, quando Razmodin aveva pagato per lui altri tre mesi di affitto.
Con che cosa avresti pagato? Hai mollato tutto. Guarda in che stato sei. Sembri un mendicante, un pazzo scappato dal manicomio!, avrebbe ripetuto Razmodin.
Quindi non è il caso che faccia tanti sforzi per farsi capire, ma Razmodin spera comunque di sentire Rassul. Non capisce perché eviti di parlargli. Lo guarda incuriosito rovistare in un mucchio di vestiti per scovare una camicia pulita. Ma sono tutte sporche e stropicciate. Rassul lo sa, e fa finta, non che non ci tenga a rispondere a Razmodin, ma non vuole fargli sapere che ha perso la voce. Sono cugini, e si conoscono bene. Si sentono dirsi delle cose, anche in silenzio. Tuttavia Razmodin insiste, come sempre: Rassul, devi fare qualcosa. Per quanto tempo vuoi andare avanti così? Se io sapessi parlare molte lingue come te, avrei fatto soldi a palate. Tutti questi giornalisti stranieri e queste organizzazioni umanitarie hanno bisogno di traduttori. Cento volte al giorno mi sento chiedere se conosco qualcuno che parla l’inglese, anche elementare. Ma con che coraggio posso dare il tuo nome? Mi hai già messo nei casini. Mi son già mangiato le mani più di dieci volte -. E, come sempre, lo perdonerà: – Se vuoi posso dimenticare il passato e presentarti di nuovo, ma cugino, ti supplico, non prendertela con i giornalisti. Che cazzo te ne frega per chi lavorano, e perché difendono questo o quel gruppo. Prendi i dollari, e vaffanculo alle loro idee e alle loro posizioni politiche del cazzo! – ma stavolta non aspetta che gli propini il tuo solito motto: Preferisco il delitto al tradimento! E continua: – È facile dire che preferisci il delitto al tradimento. Allora perché non prendi un’arma? Tu fai come lo shotormorgh. Se ti chiedono di volare, dici che sei un cammello, se ti chiedono di portare un carico, dici che sei un uccello. Trascuri i tuoi genitori, hai dimenticato tua sorella, e i tuoi amici. Se vuoi perdere del tutto la testa, vai avanti così. Lo sai almeno cosa vuoi dalla vita? – Arrabbiato, si alza, prende una sigaretta dalla tasca e l’accende. Rassul, per quanto infastidito dai soliti rimproveri, continua a fingere di cercare una camicia, e intanto annuisce e agita la mano per fargli capire che conosce il seguito: – Ti assicuro, sei cambiato, non sei più lo stesso. Volevi Sophia, l’hai avuta. Ma che cosa ne fai, ora? Vuoi riservarle la stessa sorte che hai riservato a te stesso? Cugini, siamo cresciuti insieme, ci conosciamo, per me sei come un fratello. Mi hai insegnato tutto… – Il resto, Razmodin lo tace perché solo qualche settimana prima gli ha fatto lo stesso discorso, o quasi, e Rassul gli ha risposto seccamente: -Tranne una cosa.
– Cosa?
– L’orrore di fare la morale.
– Non è per farti la morale. Ti porgo uno specchio.
– Uno specchio? No, è il fondo di un bicchiere su cui c’è soltanto la tua immagine e che tu porgi agli altri per dire: Siate come me!
Meglio che tu stia zitto, Razmodin. Credi che non me ne freghi niente di quello che mi dici. Per fortuna non sai che sono condannato al silenzio, altrimenti andresti avanti. E alla fine ti saresti sfogato del magone provocato dai miei insulti dell’altra volta, e non mi avresti sentito dire che non la voglio, la tua carità, che non mi piacciono i mercati delle pulci dei tuoi operatori umanitari, che detesto tutte queste persone tanto generose che aspettano che si parli della loro generosità, che detesto questi avvoltoi intorno ai nostri cadaveri, queste mosche che ronzano intorno al buco del culo di una vacca morta. Sì, ora detesto tutto,me stesso e anche te, il mio cugino, l’amico d’infanzia; che mi guardi dritto negli occhi, e che aspetti da me qualche parola. E invece no, non sentirai più niente da me. Forse interpreti il mio silenzio come indifferenza nei tuoi riguardi. O come rassegnazione di fronte ai tuoi rimproveri.
Interpretalo come ti pare. Cosa cambia per il mondo? E per me? Niente. Allora lasciami in pace.