In via del Torchio io ho vissuto la mia prima società poetica. Per società intendo dire che sul divano sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini.
Erba, sempre allegro e dispersivo. Pasolini, taciturno ma pieno di resistenza fisica. Turoldo, dalla voce tonante e bellissima che pareva a reincarnazione della ‘scapigliatura’ redenta.
Eravamo poveri, ma pieni di pazienza e con tanta capacità di assorbimento. Più che una scrittrice io ero la loro mascotte: giovane, taciturna, forse bella, con due fiachi di cui mi vergognavo e cercavo di nascondere.
Manganelli era un bonaccione. Mi sbriciolava nella scollatura del vestito e rideva, ma aveva anche un sorriso tenero. Erba pareva sempre in cerca di un aquilone che gli sfuggiva di mano.
Schwarz, a un certo punto, mi propose la pubblicazione del mio primo libro: La presenza di Orfeo.
Tutti mi volevano ospite ma io declinavo gli inviti. Ero molto attaccata alla mia famiglia. Molti mi volevano sposare, io optai per tre medici contemporaneamente, e non ne sposai nessuno. E quando decisi di entrare in convento, credetti di aver fatto una buona scelta.
Eravamo tutti trafficanti di merce spirituale. E gli intellettuali si nascondevano dietro grossi volumi per poter sbirciare le gonne delle belle signore.
Ripensando ai trascorsi di via del Torchio, dico che sì, quelli furono tempi sereni, ma non del tutto in quanto io non ero alla ricerca della poesia, bensì della verità.
Culturalmente appagata, scrissi La presenza di Orfeo. La Presenza di Orfeo è il lamento dell’anima che si trova nell’inferno idrico del corpo. Che non riesce ad uscire dalle tenebre. L’anima che tende a rompersi, a mettersi in contatto con il divenire ma che rimane inspiegabilmente ferma nelle fauci di Pluto. Io sono ancora in bocca a quel misero cane.
(…)
Mi chiedono spesso quando rende la poesia. In denaro credo proprio che non mi renda nulla, ma a livello fisico mi tiene in forma l’intestino. Questa assurda parentela, lungi dal commuovermi, mi fa arrabbiare. Si può dire che sin dall’inizio, fin dal tempo dello sviluppo, questa dannazione mi ha perseguitato: un corpo così violento, prosperoso e disarmonico e un’anima fatta di latte e miele. Capisco che queste cose non vanno d’accordo. Quando questo equilibrio si guasta entra in ballo la psichiatria. Per far funzionare quella macchina prodigiosa che l’anima-corpo del poeta, bisogna andare in psichiatria.
(…)
Essendo matta anch’io, diffido dei matti. Se ci lasciamo giocare anche da loro, figuriamoci dai benpensanti, sorreti dalle guardie, dalle discipline e dalle cartelle cliniche. Così diffidai per un lungo tempo di Dino Campana, dicendo a me stessa che tutto sommato i Canti Orfici erano una dimensione periferica di Dino e che la verità centrale dell’autore era la follia. In realtà per il malato la follia è il suo centro di vita. Egli è sempre impegnato nella lotta contro la sua ombra. Sì, certo, Campana fu sviato da ciò che dovevano essere i suoi interessi. Mi è caduto l’occhio su un passo dove parla della benevolenza delle assistenti sociali: non sono d’accordo con lui. Intanto queste donne non dovrebbero mai avvicinarsi a un poeta. Quando incontrano il poeta lo smembrano, lo studiano con cautela, lo valutano e gli danno un prezzo. Ma sopratutto gli fanno delle diagnosi mediche a scopo cautelativo. Campana portato in mano dalle dame di s.Vincenzo mi fa veramente paura. È lì che diventa pericoloso: quando incappa in sorgenti di malessere così acute e terribili come il perbenismo borghese. Anch’io, come lui, sono stata manipolata da loro, da quella loro aria accorta e sufficiente di gente per bene. In effetti questa gente ha in mente una cosa sola: il proprio benessere. Che i propri orari, persino quella della defecazione, non vengano guastati. Sono loro che fanno il manicomio, ancor prima dei medici.