TRE PIANI – Nanni Moretti


Il film, adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 2017 scritto da Eshkol Nevo, ha per protagonista un cast corale che comprende Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Elena Lietti, Alessandro Sperduti, Denise Tantucci, Nanni Moretti, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Stefano Dionisi e Tommaso Ragno.
Si tratta del primo film del Moretti regista a basarsi su un’opera altrui e non su un soggetto originale.
L’ultima volta che Nanni Moretti aveva rinunciato a qualsiasi nota di commedia era andata bene. Era stato per La stanza del figlio, Palma d’oro nel 2001. Quello, come Tre piani, era un film sul dolore, specialmente sulla dimensione privata della sofferenza e i piccoli gesti che la raccontano. Ora di nuovo, per la seconda volta in una lunga carriera, Nanni Moretti non gira una commedia. E per la prima volta adatta un romanzo, quello di di Eshkol Nevo, da che le sue sceneggiature sono sempre state idee originali. Forse proprio per quello l’impressione, una volta finito, è che Tre piani, nonostante citazioni ammiccamenti e segni morettiani, a tutto somigli tranne che ad un film di Nanni Moretti.
La trama, innanzitutto, ha un intreccio molto articolato e già non è usuale per il suo cinema che delle trame fa ben poco e gioca tutto sulle singole scene, le trovate pazzesche e la maniera in cui ribalta le convenzioni. Un incidente in auto scatena diverse storie di un medesimo condominio. Chi guidava e ha investito una donna è il figlio di un importante giudice, da sempre considerato dal padre un buono a nulla e che ora non sarà salvato dalla galera, anzi. A vedere tutto c’era una donna incinta che, una volta partorito, viene spesso lasciata sola con la figlia da un marito che viaggia per lavoro, e teme di impazzire dietro a visioni e sogni come già sua madre prima di lei. Una famiglia che ha buoni rapporti con i vicini, una coppia anziana, lascia a loro la figlia per una sera, solo che il marito è sempre meno lucido e, dopo essere uscito con la bambina alla ricerca di gelati, si perde e finisce in un parco. Quando il padre li ritrova non riesce a levarsi il sospetto che il vecchio abbia abusato della figlia.
Tutte queste storie intrecciate compongono un mosaico di cattiveria, di odio e di paure che alimentano la diffidenza e trasformano un condominio in cui vigevano buoni rapporti in un luogo di tensioni. Soprattutto trasformano persone gentili e a modo in animali desiderosi di schiacciare gli altri. Cinque anni dopo questi eventi la situazione sarà peggiorata per tutti. Altri cinque anni dopo vedremo come si sono risolte le storie. Sono insomma molti gli eventi da raccontare e le singole trame hanno svolte interessanti, tuttavia in ogni momento di Tre piani è forte l’impressione che a Moretti (che prende il ruolo del giudice inflessibile, uno che il romanzo raccontava solo al passato mentre qui esiste anche al presente) non abbia mai davvero a cuore questi intrecci.
Invece che sugli eventi il film preferisce concentrarsi sulle attese e i momenti in cui i personaggi metabolizzano o elaborano ciò che gli è successo. Invece che raccontare i personaggi mentre accade qualcosa, attraverso la maniera in cui la vivono o quella in cui agiscono, scientificamente Tre piani sguazza nei momenti di solitudine, in quelli di dubbio e sulla stratificazione di paure e sofferenze le une sulle altre. Come già provato con successo in La stanza del figlio Moretti si chiede in ogni momento come facciano questi personaggi a venire a patti con quello che gli sta accadendo, li osserva nell’intimità mentre piangono davanti alla scuola della figlia o registrano messaggi illudendosi di parlare con i morti, per capire che strategie usino e con quali effetti.
Pur riuscendo a non sfociare mai nella pornografia del dolore e nel cinema melodrammatico lo stesso Tre piani non riesce nel suo intento di congelare le passioni per analizzarle con occhio clinico, per sezionarle, scrutarle e così, tramite il cinema, capirle. Non ci riesce perché molte delle scelte di messa in scena e racconto non funzionano. In testa a questa lista di decisioni sventurate c’è quella di tornare a puntare su una recitazione ieratica e una direzione degli attori quanto più possibile statica. Se la scena in sé non prevede un movimento, gli attori non si muovono, riducono al minimo l’espressività, tutti quanti, e raggelano l’emotività. È una scelta che parla di un mondo in cui il problema reale è l’assenza di contatto umano, e logicamente ha un senso ma filmicamente è terribile e mortifica attori altrimenti di gran livello (Scamarcio, Rohrwacher, Buy, Ragno, Lietti). In passato questa forma di distacco creava nei film di Nanni Moretti l’impressione che fossero ambientati in un mondo a parte in cui tutto avveniva come in un sogno, con tempi suoi, interazioni sue e reazioni sue. Qui invece porta solo ad un film che dà l’impressione di essere realizzato senza cura. Cosa che ovviamente Tre piani, in realtà, non è.
La durezza di una messa in scena così rigida si adatta malissimo al racconto dei sentimenti e delle passioni forti che animano le storie. Senza parlare di quanto fatichi negli scarsi passaggi in cui c’è del movimento (l’incidente iniziale, una rissa casalinga, il ballo in strada e una manifestazione violenta sono imbarazzanti e sotto gli standard qualitativi accettabili da un film di questo profilo). Compassato e tranquillo Tre piani dovrebbe riuscire a far passare tra le pieghe del suo naturalismo, la forza nera che anima queste persone, prime vittime di uno stile di vita che ha poco di umano. Invece il film stesso sembra attraversare la trama senza appassionarsi mai, scruta più con perversione che con compassione o partecipazione, come se dovesse mantenere una certa distanza per non farsi coinvolgere da storie che invece un potenziale attrattivo lo avrebbero.

*FONTE: Wired.it