La bellezza più profonda è l’errore che si apprezza come virtù – JUAN VILLORO

La bellezza più profonda è l’errore che si apprezza come virtù
JUAN VILLORO (da C’è vita sulla Terra)

La bellezza non ammette perfezione: le mele più rosse suscitano diffidenza.
Tuttavia, in qualunque palestra ci si sforza per raggiungere con perseveranza quel che non si è avuto in sorte. Anche se la filosofia consiglia di accettare il corpo di cui siamo inquilini, abbondano dépliant e video che propongono l’opposto. Il quantum della bellezza sembra modificabile a forza di flessioni e interventi ortopedici.
In un’epoca di bisturi e Photoshop, i corpi si ritoccano come un’anticipazione di quello che potrebbe fare il chirurgo o il grafico. Se lo sport è una rappresentazione non violenta della guerra, la ginnastica correttiva è un procrastinare le mutilazioni.
Il ménage à trois fra genetica, mezzi di comunicazione e fisioterapia genera persone statisticamente belle. Quando qualcuno raggiunge quel rango, la sua bellezza sembra autosufficiente, assorta davanti alla sua stessa qualità. Nella sua condizione di dogma, di traguardo raggiunto, la top model non ha bisogno di altro che di uno specchio o di una foto. Lo spettatore non può essere per lei un complemento, tanto meno un rimedio. È sprovvista dell’imperfezione che incoraggia l’aproccio individuale. Simbolo collettivo, suggerisce che deve essere corteggiata con lo smisurato sostegno della fama, del denaro o della casualità.
Uno dei mestieri più particolari è quello di fotomodello parziale. Lo esercitano persone con perfezioni molto localizzate ( un collo del piede delicato, un lobo ideale per un orecchino della dinastia Romanov, mani perfette per pubblicizzare creme idratanti, ciglia su cui il rimmel può fare surfing…). Belle a pezzetti, queste persone non hanno una bellezza unitaria e soddisfano pienamente solo un esteta squartatore.
La bellezza autentica dipende da un difetto che rovina appena l’armonia dell’insieme, un errore minimo che accelera il ritmo cardiaco e consente uno sguardo complice, individuando non solo l’oggetto del desiderio ma chi lo brama.
Durante la mia infanzia, imparai a godere di un’anomalia gratificante: il sorriso imperfetto. Sono nato in un paese di denti potenti e piccoli, dove il poeta Ramon Lopez Velarde ha creato sconcerto del descrivere il sorriso dell’amata come un “conclave di grandine”. L’immagine fa venire i brividi; suggerisce una dentatura irregolare, scomposte dai soffici gelati che le nubili leccavano a Zacatecas.
Il poeta allude alla caducità del piacere e del corpo: ogni conclave può separarsi e il ghiaccio è transitorio. Si ride sempre per un momento. Ancor più decisivo è quanto segue: il verso descrive la bellezza come disordine. La grandine non è mai regolare.
L’eccellente dentatura nazionale è attribuita alla calce contenuta nelle tortillas. Negli anni Sessanta, questa salute atavica venne rinforzata da tecniche nordamericane. Le famiglie volevano denti più bianchi e più grandi, con lo smalto uniforme degli attori di Hollywood. I dentisti di matrice Colgate allineavano premolari creando radiose tastiere. Appartengo alla prima generazione che ha portato quegli apparecchi che prima di vedevano solamente negli ippodromi.
Il sorriso è la principale risorsa pubblicitaria dell’organismo e il sistema di misurazione del benessere. Danneggiarlo implica rischi metafisici. È possibile provare interessa per una felicità infranta, incostante, in dubbio? Certamente. È il motivo per cui esiste questo mio scritto, destinato a celebrare i difetti che non devono essere corretti.
Continuo con il mio dossier personale. L’utopia del sorriso con cui sono cresciuto è stata danneggiata dalla panacea degli antibiotici. Al primo starnuto, mi iniettavano penicillina. I miei denti si indebolirono. A quattro anni debuttai davanti al trapano del dentista. Ignoro per quale spietata ragione m’imbattei in un uomo senza una gamba che camminava per l’ambulatorio con le stampelle. Ma la vera ragione dell’orrore era un’altra. Quel dentista aveva un’infermiera che sveniva alla vista di un ago; ragion per cui, non usava anestesia. Dai quattro agli otto anni mi trivellarono i denti senza altro palliativo che i pugni stretti. All’uscita, mia madre mi comprava una macchinina. Forse questo spiega il curioso piacere che mi provoca ammaccare auto e tenerle in pessimo stato.
La tortura sotto il ronzio del trapano mi preparò alla scoperta di un piacere senza precedenti: Rosana aveva i denti storti. Il suo sorriso irregolare rendeva misterioso il suo viso, ma rivelava anche, a chi fosse in grado di capirlo, che si trattava di un sorriso salvato, ribelle, fuggitivo, un sorriso che non si era sottomesso al perfezionamento del dentista.
La meraviglia di apprezzare un dente accavallato sull’altro si estese con il tempo ai denti rotti o separati.
Ovviamente non mi riferisco agli orrori che suggeriscono una pietra in faccia, ma a quei lievi prodigi negativi. Isabella Rossellini è il prototipo della ragazza che seduce con il delicato accavallamento dei denti e Ornella Muti quello della ragazza con la separazione degli incisivi che invece di dividere ne raddoppia il sorriso.
“Conclave di grandine”, l’immagine è perfetta perché imprecisa e vacillante, come l’oggetto ch descrive.
La bellezza più profonda è l’errore che si apprezza come virtù.

JUAN VILLORO