POMERIGGIO DI UNO SCRITTORE – Peter Handke

POMERIGGIO DI UNO SCRITTORE – Peter Handke

Da quando una volta, per quasi un anno, era vissuto immaginando di aver perso il linguaggio, per lo scrittore ogni frase che scriveva e con la quale avvertiva anche la spinta della possibile prosecuzione era diventata un avvenimento. Ogni parola che, non parlata, bensì in forma di scrittura, annunciava la prossima, gli faceva tirare un sospiro di sollievo e lo ricollegava al mondo; soltanto con questo felice annotare per lui cominciava il giorno, e poi, così comunque pensava, fino al mattino seguente poteva anche non accadergli più nulla.

Ma questo timore di fronte all’intoppo, al non-poter-proseguire, anzi, al dover smettere per sempre, non esisteva forse da sempre, e non soltanto riguardo allo scrivere, ma anche a tutte le altre sue attività: l’amore, l’apprendimento, la partecipazione – in genere tutto ciò che esigeva di restare nel concreto? Il problema della sua professione non gli si rappresentava forse come un simbolo del suo problema esistenziale e non gli indicava forse, con esempi evidenti, qual era la sua condizione? Quindi non: Io in quanto scrittore, ma piuttosto: Lo scrittore in quanto me? E soltanto a partire dall’epoca in cui aveva pensato di aver oltrepassato il confine del linguaggio e di non poter più rientrare in patria e dall’incerto nuovo inizio che ne era seguito, giorno dopo giorno, non si riteneva forse seriamente “scrittore” – lui che, sebbene per più di metà della sua vita fosse stato guidato unicamente dal pensiero di scrivere, fino allora aveva usato questa parola in modo tutt’al più ironico o imbarazzato?

Ed ora, con l’aiuto di poche righe, per mezzo delle quali un fatto gli si era chiarito e aveva preso vita, sembrava di nuovo uno di quei giorni riusciti, e lo scrittore si alzò dal suo tavolo con la sensazione di poter affrontare tranquillamente la sera. Non sapeva che ora fosse. Dalla cappella dell’ospizio ai piedi del piccolo colle le campane di mezzogiorno avevano suonato a distesa come di consueto, quasi fosse morto qualcuno, e nella sua immaginazione la loro eco si era appena spenta, tuttavia da allora dovevano essere trascorse ore: infatti nella stanza la luce si era tramutata in luce pomeridiana. Dal tappeto sul pavimento saliva un raggio di luce, che lo scrittore interpretò come un segno di aver colmato la misura del suo lavoro. Alzò entrambe le braccia e si chinò sul foglio infilato nella macchina da scrivere. E nel contempo, come tante altre volte, si ripromise per il giorno seguente di non immergersi di nuovo nella sua attività, ma al contrario, di utilizzarla per allargare i suoi sensi: l’ombra di un uccello guizzante sulla parete, anziché distrarlo, doveva accompagnare il testo e renderlo duttile, così come il latrato dei cani, il ronzio delle seghe a motore, il cambio di marcia degli autocarri, il continuo martellare, gli ordini gridati senza tregue e i fischi provenienti dai cortili delle scuole e delle caserme giù nella pianura. E come già in tutti i giorni precedenti, si accorse che durante l’ultima ora alla scrivania, di tutta la città di nuovo erano penetrate nel suo orecchio soltanto le sirene delle macchine della polizia e delle ambulanze, e che non una sola volta, come già al mattino, aveva alzato il capo dal foglio per rivolgerlo verso la finestra, raccogliendosi in contemplazione di un tronco del giardino, del gatto all’esterno che lo scrutava sul davanzale della finestra, degli aerei di linea che entravano nel suo campo visivo, atterrando da sinistra a destra, decollando da destra a sinistra. Così dapprima non riuscì a focalizzare nulla in lontananza, e anche il motivo del tappeto gli appariva come cancellato; nelle orecchie sentiva un ronzio come se la macchina sa scrivere fosse stata elettrica – cosa che non era.